Ricette toscane e… birra!

Una nuova rubrica per i lettori di FUL dedicata all’abbinamento tra ricette toscane e birra. Una serie di appuntamenti in cui il nostro Simone Cantoni, uno dei più autorevoli esperti birrai del panorama italiano, vi porterà alla scoperta di accostamenti unici e di assoluto interesse per il vostro palato. 

Ribollita ovvero “Si fa presto a dire zuppa”. E si fa presto, anche, a dire “abbinamento”. Perché è ovvio come, per l’affiancamento di questa ricetta, in tavola, a un calice adatto, non possa non essere gesto spontaneo, addirittura automatico, rivolgere lo sguardo a quello che è l’accompagnatore tipico di tutte le specialità del repertorio gastronomico toscano: il vino (inteso naturalmente non al singolare, ma al plurale, insomma, in tutte le variabili con cui è capace di presentarsi). E invece l’obiettivo di questa serie, oggi al debutto, di “ritratti” di preparazioni tipiche della cucina fiorentina è quello di divertirci – e di divertire chi legge, speriamo! – con altrettante piccole o grandi provocazioni, aventi come comune denominatore quello di accostare appunto alcuni classici, “consacrati” dalla tradizione, a sorsi inediti, provenienti da repertori e consuetudini diverse. Diverse almeno finora. Parliamo infatti di birre: buone birre di qualità. Come se ne trovano, certo, all’estero (nelle aree di radicamento storico: Belgio, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti); ma come ne abbiamo, e sempre più, anche da noi, grazie a un movimento di produttori artigianali che, nel giro di 20 anni, è arrivato a contare, dagli iniziali cinque o sei pionieri, qualcosa come oltre mille marchi lungo tutto lo Stivale. E’ dunque giunto il momento di sdoganare definitivamente il tandem “orzo & luppolo” (è una semplificazione, ma ci siamo capiti) come partner all’altezza di figurare accanto ad alcuni di quei piatti che legittimamente consideriamo “mostri sacri” del nostro repertorio alimentare. E allora ecco che si capisce il senso di quel “Si fa presto a dire abbinamento”. Eh già: facile rivolgersi a qualche Bacco collaudato; che so, a un Chianti. Qui suoneremo un’altra musica; e proveremo a suggerire l’accoppiata con… la pinta. Anzi, con le pinte, immaginando diverse soluzioni di associazione della nostra ribollita.

Chiaramente, per non navigare al buio, o in base al semplice estro (“Annaffio alla pietanza che mi piace il bicchiere che mi piace”, senza tener conto di alcun criterio consigliabile), occorre partire invece proprio con un approccio metodico. E dunque andare a “radiografare” la pietanza in questione, o quantomeno a definirle i fondamentali sensoriali, per poi cercare le corrispondenze presumibilmente più indicate. Nome peculiare del golosario fiorentino, la ribollita non è una semplice zuppa: ma il suo concetto elevato a virtuosismo dell’economia (con essa si recuperava il recuperabile, dalla dispensa) e del piacere per il palato. Come minimo una zuppa elevata al quadrato: il suo tessuto materiale (fette di pane raffermo a irrobustire una peraltro già muscolare minestra di verdure) viene infatti concentrato e potenziato mediante la pratica delle ricotture successive alla prima; specificità di trattamento che giustifica il nome stesso della ricetta e che sostituisce una parte della sua irresistibile attrattiva.

Senza addentrarci nei dettagli dell’esecuzione, ricordiamo gli ingredienti di cui – oltre al pane appena menzionato – si ha bisogno per mettersi al lavoro. Cavolo verza e nero (quest’ultimo che abbia “preso il ghiaccio”, che abbia affrontato cioè una o più gelate invernali, atte ad ammorbidirne le foglie), patate e pomodori, gli infaticabili fagioli (secchi, da ammollare la sera precedente ai cimento dei fornelli), coste di bietola e porri, sedani e carote, cipolla e aglio, rosmarino e olio Extravergine d’oliva, sale e pepe. Un cast di sostanza, insomma, che viene chiamato all’azione – sempre sinteticissimamente – secondo questo svolgimento:

Si scaldano i fagioli in acqua fredda fino ad ammorbidirli e si appronta il soffritto con un trito di porri, carote e sedano, cipolla sminuzzata, aglio e olio. Si preparano le altre verdure (patate a cubetti, bietola a fette, così come cavolo verza e cavolo nero) unendole poi al soffritto, dosando sale e pepe, nonché bagnando l’insieme con il liquido dei legumi.Si prosegue la cottura a fuoco lento, aggiungendo alla bisogna del brodo vegetale e portando gli ortaggi a sfaldamento. Si travasano allora anche i fagioli e si mantiene il fuoco basso, onde – sempre lubrificando all’occorrenza con brodo – ridurre il tutto quasi a una crema: che alla fine si travasa in un recipiente, da coprire per ritardare il consumo all’indomani. La zuppa sarà infatti riportata nel tegame del giorno prima, per poi, una volta introdotto anche il pane raffermo e di nuovo del brodo, essere ribollita per un quarto d’ora, decorata con un rametto di rosmarino, completata con olio e condotta, ben calda, in tavola.
ribollita
Il risultato è una portata dalla bontà frugale ma per niente scontata, nella quale anzi sono il senso della proporzione e la sorveglianza nei passaggi sul fornello a determinare la qualità del boccone. Quest’ultimo sarà facile al dente, ma non “sciolto”, gustoso anche se non salato, profumato delle fragranze vegetali che ne costituiscono la dorsale organolettica. Di notevole densità sensoriale, richiederà l’abbinamento con un bicchiere di pari intensità e persistenza, che però non vada a urtare, con irruenze amare, l’appena citata sapidità. Un bicchiere, inoltre, dotato di una corporatura in grado di sostenere il confronto con la massa (proteica) dei fagioli e (in amidi) delle patate, incrementata dalla ricottura; chiamato, con le sue funzioni sgrassanti (frizzantezza e alcol, volendo evitare le acidità), a ben gestire la componente grassa (non molta in realtà) dell’olio e dei legumi, ma soprattutto la materia amidacea loro e delle patate.

Il nostro binocolo si orienta dunque sulle Belgian Strong Golde Ale, genere di grande energia, morbida e priva di esuberanze amaricanti, di elevata gradazione, di buon corpo ed effervescenza. Alcuni esempi territoriali? Dalla “Melyssa” della gamma fiorentina di Archea, a “La Mancina” del Birrificio del Forte (Pietrasanta, Lucca); dalla “Draconis” de La Gilda dei Nani Birrai (Pisa) alla “Cinque e Cinque” del Piccolo Birrificio Clandestino (Livorno). E adesso? Non resta che provare…

Simone Cantoni
Ph from: http://birraitaliana.eu/