Chiude anche il caffè Giacosa, che ne sarà di via Tornabuoni?

Firenze patrimonio dell’umanità, Firenze vanto e gloria dei fiorentini. Firenze guardata con invidia da molte città italiane, non solo per le opere d’arte ed i suoi musei ma per una tradizione multiforme e sfaccettata di saperi e di valori, di specialità che vanno dalla creazione del Negroni alla doratura del legno.

 
Firenze in questi giorni perde un’altro pezzo importante di sé in una arteria cruciale del suo centro. Una strada che piano piano ha ceduto la sua storia a marchi di lusso, trasformandosi in una anonima e rutilante vetrina senza identità specifica. Non mi riferisco alla chiusura della boutique Cavalli ma, a quel poco che resta del Caffè Giacosa, esercizio storico e blasonato, ridotto al lumicino e costretto in un angolino di Via della Spada, relegato alla funzione di “bar della boutique” ma pur sempre presente, in qualche modo, vivo anche se esangue.

Via Tornabuoni è una strada che pezzo dopo pezzo ha perso la sua vita e i suoi negozi più belli e ha lasciato il passo, per dirla con Daverio, a qualcosa che assomiglia più al Duty Free di un aeroporto di lusso che alla via storica di una città ricca di tradizione. Una strada svuotata dei suoi cittadini e piena di clienti in cerca di lusso e ostentazione, passerella per nuovi ricchi apparecchiati come magazine comanda. Niente di male se in questa trasformazione non avessimo perso pezzi pregiati della vita della nostra città: come Il caffè Giacosa tempio di stile ed eleganza un po’ snob e un po’ fané, stracolmo di dolci, fascino e praline, la storica sede della libreria Seeber con quei meravigliosi scaffali in legno e un indimenticabile profumo di libri e di cultura. La profumeria inglese luogo austero, sontuoso e magico e lo storico marchio Ugolini, camiceria d’eccellenza, maglieria raffinata espressione di una sartorialità preziosa, tanto per citare alcuni luoghi noti e in qualche modo a me cari.
Ma proviamo a sviluppare un pensiero che, se pur utopico, sia propositivo.
Immaginiamo, per gioco, che l’amministrazione comunale individui delle attività che nei decenni hanno rappresentato per la città un punto di riferimento estetico, culturale e strategico e riconosca che, oltre ad essere oggetto di mercato, tali attività rappresentino dei simboli da tutelare e da garantire. Sempre per divertimento proviamo a pensare che questa stessa amministrazione virtuosa si ponga non come inerme spettatore della disfatta ma come garante di un percorso imprenditoriale di tipo cooperativistico che, dal basso, promuova una forma di imprenditoria altra. Alcune volte in questo tipo di percorsi sono i lavoratori stessi che si assumono l’incombenza di gestire, di auto-organizzarsi e sviluppare nuove strategie per il marchio – è il caso della Seeber di Arezzo dove i commessi si sono fatti carico della libreria e con intelligenza e sacrificio l’hanno salvata difendendo il proprio posto di lavoro e introducendo nell’attività nuova linfa creativa e imprenditoriale.
È chiaro che questo modello in molti casi non produrrebbe ricavi faraonici e richiederebbe monitoraggio continuo e tutela pubblica, almeno agli inizi, ma garantirebbe stipendi dignitosi, sopravvivenza degli esercizi commerciali, continuità dei marchi storici, tutelando un’ecosistema merceologico radicato col territorio e con una economia reale fatta di relazioni e di valori, di occupazione e ridistribuzione; lontana dalla città vetrina voluta da manager apolidi e da politici pavidi e conniventi, amministrata seguendo principalmente la logica del marketing e dei dividendi e di una politica fatta di proclami ed immagine. Riporterebbe risorse nel territorio e non solo guadagni per marchi ormai anonimi con sedi legali situate chissà dove.
Va da sé che sarebbe necessario uno sforzo progettuale non indifferente da parte del comune, unito alla volontà di tutelare e coordinare, almeno per quanto riguarda la fase iniziale, queste cordate di cittadini. Ma siamo proprio sicuri che il Gambrinus non avremmo potuto salvarlo da quello scempio al quale è stato condannato, così come è stato fatto per la Compagnia, il Niccolini o L’Odeon? Che non avremmo potuto mantenere la Seeber nella sua sede storica avviando una cooperativa di giovani librai, accompagnandoli in un percorso imprenditoriale in cui il Comune funga da garante con le banche e con la città e diventi partner e consulente di percorsi virtuosi? Magari sarebbe necessario legiferare e creare norme ad hoc, esentare provvisoriamente i nuovi commercianti da esose gabelle. Sostenere, appoggiare, tutelare un modello di sviluppo fragile ma significativo, nuovo e, permettetemelo, necessario.

Il caffè Giacosa è stato un tempio, un luogo di culto e di tradizione simbolo di una strada altera e magnifica, un patrimonio per tutti i fiorentini che per generazioni ci hanno lavorato o semplicemente preso un caffè in un giorno di festa, sorseggiato aperitivi quando nel resto d’Italia questa parola voleva dire poco o nulla, concluso affari od intravisto amori, festeggiato ricorrenze o affogato dispiaceri. Il caffè Giacosa è stato, per decenni, un punto fermo per tutti quelli che hanno avuto la fortuna di vivere in una città costruita e pensata da chi la città la amava, la capiva, ne era interprete e protagonista. Una città che lentamente ma inesorabilmente sta scomparendo e che spetta a noi tutelare. Prima che anche l’ultimo cittadino se ne sia scappato. Prima che sia troppo tardi. Prima che tutto si trasformi un po’ in Disneyland, un po’ in cimitero.
Cesare Torricelli