Architettura ecosostenibile, street art e Uovo alla Pop: due chiacchiere con l’architetto Valeria Aretusi

architetto Valeria Aretusi

A Livorno i muri parlano e per ascoltarli devi solo aprire gli occhi.
Le strade che hanno dato in passato zona franca a mercanti e corsari, raccolgono oggi l’ispirazione degli artisti attraverso interventi concepiti per ridare un’anima ai quartieri fantasma e riallacciarli al tessuto urbano.
Segni di passaggio che, se seguiti, conducono il cittadino a guardare e ri-conoscere le strade della città.


Da questo porto di idee fluide, di creatività sedimentata e un po’ anarchica, parte l’evoluzione artistica di Valeria Aretusi, architetto e co-fondatrice della galleria d’arte Uovo alla Pop.
Classe 83, si laurea alla Sapienza passando per l’università IFU di Parigi dove studia l’ecosostenibilità e il rapporto tra spazio architettonico e città.
Dopo l’esperienza romana con specializzazione in giardini verticali e verde pensile, la collaborazione con lo studio fiorentino Claudio Nardi Architects fino al 2016.
Poi un percorso indipendente fatto di progetti privati legati alle case ecosostenibili in legno con uno sguardo rivolto al recupero del passato senza trascurare la ricerca tecnologica, rispettando la natura e l’armonia degli ambienti. Non solo architettura ma anche allestimenti, installazioni artistiche clubbing ed eventi…

Quanto Livorno ha influenzato la persona e la professionista che è oggi Valeria Aretusi?

Livorno, amore a prima vista. Per me è stata come un foglio bianco sul quale sperimentare ciò che non esiste sotto gli occhi del mare.
Livorno è “lische squame coda amore libertà”, il luogo degli artisti, la città del vento e del lungomare, un luogo che mi ha permesso di immaginare e creare con amore. Questo è stato anche l’inizio dell’ approccio all’ arte urbana nel mio percorso con il collettivo di Uovo alla Pop.

Quali sono i tuoi riferimenti, nell’arte e nella tecnica, a cui guardi prima di avviare un processo di progettazione?

La curiosità continua su ogni forma d’arte ed è necessaria per non sedimentarsi in rigidi schemi. Prima di tutto sono influenzata positivamente dalle persone che mi sono vicine. Il più grande esempio per me è Barragan l’urbanista dei colori, India Mahdawi una maestra per me, Henri Rousseau con la sua fantasia e il rapporto con la natura e Franco Summa che porto dietro dal mio Abruzzo.

Quando lavori su un progetto di ristrutturazione, in che modo traduci l’originaria natura del manufatto architettonico in un linguaggio contemporaneo?

È importante mantenere la storia del manufatto, studiare il luogo e la sua memoria. Attraverso questa analisi il mio linguaggio contemporaneo è semplice: valorizzo la storia rispettando i materiali esistenti riportandoli alla luce, utilizzo la tecnologia per migliorare la qualità dell’abitabilità, integro l’architettura con il legno, materiale vivo per essenza, e interpreto i desideri e i bisogni di chi abiterà questi spazi orientandoli verso soluzioni di benessere.

Durante la tua esperienza di studio all’università di Parigi hai approfondito l’ecosostenibilità  nell’architettura. Quali differenze hai trovato, se ne hai trovate, nell’attenzione riguardo a questo tema?

Piú che differenze è una questione di tempi e di mentalità. Per entrare nel pieno di questo tema ci sono due strade: la prima è la passione e la sensibilità nel progettare in modo ecosostenibile; la seconda è una lenta educazione all’approccio, se non si ha nella tradizione italiana, come per esempio in Danimarca. A Parigi ho conosciuto amici e colleghi che hanno nel sangue questa filosofia. Noi in Italia abbiamo iniziato con ritardo ma le cose stanno cambiando sotto i nostri occhi, specialmente adesso, durante la pandemia.

Quali sono per te gli elementi fondamentali per definire un progetto ecosostenibile?

Per me progettare soluzioni sostenibili  vuol dire progettare per costruire in modo intelligente e far trapelare consapevolezza ecologica. Le variabili che compongono una progettazione così definita sono molte e cambiano anche in base alla scala e al contesto di progettazione, da un appartamento ad un ristorante immerso nella natura, per esempio. E’ fondamentale studiare l’orientamento delle stanze per mantenere il massimo comfort, progettare pareti ventilate che migliorino l’isolamento termico e acustico o una ventilazione meccanica, utilizzare preferibilmente il legno di filiera controllata come materiale predominante, dalla struttura all’interior, contribuendo al risparmio energetico in quanto materiale vivo e salubre. Ci si approccia all’ecosostenibilità anche adottando sistemi domotici: utilizzando fonti di energia naturali e alternative come la biomassa, progettando tetti verdi che raccolgono le acque piovane e, perché no, studiando un impianto di depurazione che adotta il funzionamento naturale con sistema batterico per l’irrigazione del giardino e dell’orto.  Potrei andare avanti per ore perché i dettagli sono importanti ma ciò che conta è abbracciare questa filosofia per saper progettare in modo etico.

Come nasce Uovo alla Pop? E cosa ha portato zio Fester nel vostro logo?

Il collettivo delle uovas lavora insieme da prima dell’Uovo nel campo dell’arte urbana. Nel 2017 nasce poi Uovo alla Pop, dalla voglia di confluire le forze tutte al femminile nell’arte, nell’architettura, nel design, nel turismo e in progetti sociali innovativi. Uovo alla Pop nasce anche grazie alla vincita di un bando di rigenerazione della Regione Toscana. Perchè un nome cosi? Dall’amore di Viola Barbara per il simbolo dell’uovo Giulia Bernini ha interpretato un gioco di parole divertente. Zio Fester poi ha sempre portato in bocca una lampadina che si accende con una carica elettrica, è lì che nasce il simbolo dell’uovo. Io e Libera Capezzone abbiamo iniziato a vedere le uova ovunque da quel giorno e cosí fanno tutti coloro che ci conoscono. L’uovo è il simbolo di rinascita, idea, vita, perfezione.


Le figure oniriche di Giò Pistone, i personaggi subacquei di Blub e le favole surreali di Zed1. Sono tante le creature che popolano i muri di Livorno, c’è un’opera che ti fa ancora fermare ad osservarla?

Il primo muro che venendo da Roma si incontra entrando a Livorno: “È vent’anni ‘che mi sembra di parlà co’ muri!” ZEB, intramontabile.

Com’è cambiato il rapporto tra cittadino e street art?

Penso che un’opera di arte urbana o di street art entri in un quartiere così come una statua entra nella sua piazza. Il cittadino ha quindi capito, apprezzandola o criticandola, che diventa un bene comune, portavoce di un messaggio, il simbolo di un concetto o di un luogo. Ogni opera, dalla poster art al grande murale, inizia ad entrare dentro ognuno di noi perché la guardiamo con attenzione sotto casa della nonna o dietro al nostro ufficio. Ebbene, succede anche che il cittadino possa decidere di restaurare un murale vandalizzato, abbracciare un concetto letto e possa affezionarsi ai labili interventi artistici cancellati dalle intemperie o dal crossing, chiedendoci poi: “sarà mai possibile rifarlo?” J

Prossimi progetti in cantiere per le uovas?

Le uovas bollono sempre! Ora bolle in pentola un grande progetto di rigenerazione urbana su un tessuto urbano della città.
Inoltre, aspettiamo un grande artista dal Brasile per un lavoro al quale teniamo molto e nel frattempo stiamo lavorando con la casa famiglia Oami, Opera Assistenza Malati Impediti,
attraverso laboratori che confluiscono in murales per gli spazi della sede. Cosa dicono i residenti? Sono loro i nostri artisti e siamo noi che copiamo loro!