Exodus: intervista al fotografo Nicolò Filippo Rosso

exodus Nicolò Filippo Rosso
A woman crosses the Rio Bravo and enters the United States with 2 children on March 27th, 2021, in Ciudad Juarez, Mexico.

Intervista a Nicolò Filippo Rosso, il pluripremiato fotografo che ha testimoniato per immagini l’esodo dei migranti dal Sud America verso gli USA.

Nicolò Filippo Rosso per quattro anni ha percorso le rotte migratorie tra Venezuela e Colombia, Messico e Stati Uniti, seguendo il viaggio dei rifugiati nelle terre di confine del Centro America per documentarne il drammatico esodo. Noto anche per il suo impegno in Colombia – dove dal 2016 ha immortalato l’impatto dell’estrazione del carbone sul territorio e la popolazione – è stato da poco insignito del prestigioso Eugene Smith Fund Grant per Exodus, il suo progetto sulla condizione dei migranti. Exodus, che vanta diversi riconoscimenti internazionali – tra cui un World Press Photo e il Getty Editorial Grant – a fine 2021 è stato pubblicato in Italia su 7, il settimanale de Il Corriere della Sera.

exodus Nicolò Filippo Rosso

A soli 36 anni, Rosso ha già pubblicato i propri reportage su molte riviste e quotidiani, tra cui The Washington Post, Bloomberg News, BusinessWeek, Courrier International, Haaretz o Der Spiegel. Il fotografo piemontese attualmente collabora anche con agenzie internazionali e ONG come UNHCR o UNICEF. Le sue fotografie sono state esposte in gallerie e musei in Colombia, Stati Uniti, Canada, Francia, Italia, Germania, India e hanno fatto parte della mostra itinerante del World Press Photo 2020 in 50 paesi. A Firenze per una special lesson presso l’Accademia Italiana, FUL ha potuto incontrarlo e intervistarlo.

Le tue foto testimoniano come lo stile di vita occidentale tecnologico ed energivoro dipenda dallo sfruttamento di risorse nel “Sud del mondo”… 

Questo è uno dei temi con cui sono entrato in contatto con la fotografia. Sono arrivato in America Latina perché volevo viaggiare e in Colombia ho stretto amicizia con alcuni componenti di comunità indigene. Lì mi sono reso conto che il sentimento di ricerca della libertà ha lasciato il posto ad altro, la responsabilità. Più esploravo e più mi rendevo conto della relazione tra un’ingiustizia in quel luogo e un privilegio dall’altra parte del mondo. Dal 2016 racconto i temi che mi hanno toccato. Il caso dell’energia è il più emblematico: in Colombia c’è una delle più grandi miniere di carbone al mondo, che è a cielo aperto e ha un impatto ambientale pesante. Nel processo estrattivo e di stoccaggio nei pit, il carbone va lavato con una grande quantità di acqua, stimata in 16 milioni di litri al giorno, ma gli attivisti ambientali credono siano molti di più. Immagina, in una regione desertica quella estrazione avviene a discapito di un’agricoltura di sostegno per le comunità indigene che ci vivono. La miniera fagocita tutte le risorse dell’ambiente e disgrega il tessuto sociale. Noi italiani siamo acquirenti e bruciamo quel carbone: sempre meno, ma lo abbiamo fatto per decenni. Il fatto che le nostre case siano riscaldate e fornite di elettricità è possibile anche grazie a quel tipo di estrazione che genera distruzione. 

Questo fenomeno di sfruttamento delle risorse è poi connesso all’altro che hai documentato: l’immigrazione.

In generale, la fotografia è per me uno strumento di autoconoscenza del mondo che osservo e l’analisi dello stato attuale delle cose è un disequilibrio tra Paesi e persone. Il sistema economico capitalista, producendo svantaggi/privilegi e povertà/ricchezza, è alla base del fenomeno migratorio. Finché ci saranno ingiustizie e disuguaglianze – che sono talvolta i pilastri di questo fenomeno economico – esisteranno flussi migratori. Anzi, siamo solo agli inizi di un’epoca dell’umanità che sarà sempre più segnata da esodi di massa.

Come è nato il reportage Exodus?

Il mio approccio fotografico alle storie è molto “fisico” e nasce per le relazioni che intreccio con le persone. Nello specifico, gli incarichi che dal 2018 ho via via ricevuto avevano tempi di consegna molto contingentati e non mi permettevano di sviluppare un linguaggio visuale comprensibile a tutti. Allo stesso tempo, sentivo di non onorare il privilegio concessomi dalle persone che ritraevo nella loro intimità. Così ho deciso di passare più tempo sulle rotte migratorie e nelle zone di frontiera. Vi sono ritornato prima per settimane, poi per mesi, e da ultimo sono quattro anni che lavoro a questo tema. Adesso che sento di poter affrontare il fenomeno, scopro il paradosso per cui i protagonisti spesso non vengono messi al centro della storia, bensì usati per sostenere un approccio ideologico politico o di sistema economico. Ad esempio gli USA, o la Colombia stessa, con la migrazione dei venezuelani – e nonostante la sofferenza di migliaia di persone – valutano la propria economia capitalista rispetto a un esperimento socialista fallito. 

Come calcoli i rischi del tuo lavoro? Che poi sono quelli che hanno i migranti.

Il problema della violenza endemica in America Latina è la sua normalizzazione e percezione. La violenza è così diffusa e permea ogni tipo di relazione che a volte non la percepisci. Puoi sentirti tranquillo vicino a un passo di frontiera, ma magari è controllato da gruppi paramilitari o bande criminali. Difficile calcolare i rischi, quello che faccio io è tenere dei contatti sul territorio. Magari sono persone legate in qualche modo alla “catena criminale”, ma cerco di far sapere loro che ci sono e cosa faccio… Insomma mi difendo stabilendo relazioni. Poi con i migranti – che non sono abituati ad essere ascoltati – capita di instaurare un rapporto di fiducia perché sono lì ad ascoltarli mentre stanno vivendo un momento unico della loro vita che ne determinerà il futuro. Quindi possono essere anche loro a proteggermi da aggressioni. Ovviamente ci sono cose che è troppo pericoloso fare, tipo passare la notte in certe zone del Messico: dai racconti dei migranti, che sono gli ultimi della piramide sociale, mi sono accorto di quanto un essere umano possa essere sfruttato anche quando ha perso tutto: sequestri, lavoro in schiavitù o arruolamento nel crimine

Che idea ti sei fatto dell’America Latina? Gianni Minà l’ha definita il continente “desaparecido”.

Quello che osservo dell’America Latina è che le persone abbandonano un Paese per condizioni intollerabili e arrivano in un altro dove le condizioni non sono migliori. Questo polarizza la geografia della migrazione, nel senso che l’unico luogo dove ricominciare una nuova vita sono gli USA o certe zone dove l’economia è più forte, tipo il Cile o il Perù. Possono essere viaggi di mesi o di anni, migranti che vengono deportati o espulsi e riprendono dall’inizio il viaggio. Il trauma rende precaria tutta la società, e siccome stiamo parlando di milioni di individui, significa che le prossime generazioni del continente avranno una percentuale consistente di persone che ne sono rimaste segnate

Da anni sei di base in Colombia, cosa ti lega a questo Paese? 

Ho incontrato delle persone speciali, spesso sono appartenenti alle comunità indigene e hanno un senso del rispetto, della dignità, del rapporto con Dio e la Natura veramente forte. Nella realtà colombiana questo forma a discapito della mancanza di un sistema educativo moderno. Tra l’altro, l’ho ritrovato pure quando ho conosciuto alcuni guerriglieri delle FARC. Benché abbiano riprodotto un sistema machista, patriarcale e corrotto all’interno di una struttura marxista – questa è la mia percezione della loro gerarchia – allo stesso tempo hanno un’educazione di stampo rivoluzionario. Persone che fin dall’adolescenza sono cresciute nella selva con disciplina militare, consapevoli che quella formazione era funzionale a liberare gli oppressi. Quindi, benché i capi abbiano perpetrato crimini o gestito il narcotraffico, la base dei guerriglieri – rivoluzionari che vivono nella giungla ma sanno di economia, medicina, filosofia o arti marziali – è sinceramente convinta nella lotta di liberazione di un popolo. E questo per me è incredibile, perché sono stato testimone di qualcosa che non si ripeterà più, dato che il processo di pace ha smantellato la guerriglia. 

Foto di Nicolò Filippo Rosso