A lezione di empatia: intervista a Gaia Nanni

Gaia Nanni

Fra spettacoli consolidati e idee innovative, intervista all’attrice fiorentina Gaia Nanni.

Gaia Nanni nasce su un palcoscenico, quello di casa sua. Le prime recite sopra il tavolo di cucina davanti ai parenti, la nonna che fin da subito crede in lei, la scelta della strada da percorrere, rigorosamente dritta verso il teatro. Dopo la laurea, l’annuncio ai parenti: «Sul palcoscenico mi sento come a casa». Da allora sono nati moltissimi spettacoli portati in scena da Nord a Sud Italia e con questi sono arrivati svariati premi e tanti applausi da critica e pubblico; quest’ultimo, però, è ancora poco eterogeneo per poter parlare di un teatro davvero “di massa”. Eppure, una soluzione per renderlo davvero inclusivo ci sarebbe: basterebbe dire addio al narcisismo e mettere al centro i veri protagonisti di ogni spettacolo, ossia quelle stesse persone che siedono in platea e non vedono l’ora che il sipario si apra ed esca, con il cuore pieno di eterna gratitudine, Gaia Nanni.

Quando e come ti sei avvicinata al mondo del teatro? 

Fin da piccola obbligavo la mamma a sparecchiare in fretta e furia il tavolo per lasciarmi le assi senza tovaglia, montarci sopra e fare uno spettacolo. La nonna era quella più convinta, continuava a ripetere: «Questa figliola deve fare qualcosa, via, portiamola da qualche parte», a mo’ di mantra: alla fine non mi hanno mai portato da nessuna parte. Per fortuna hanno lasciato che scegliessi e sbagliassi la mia vita come meglio credevo e dopo la laurea ho comunicato a tutti che c’era un unico posto dove mi sentivo a casa: il teatro.

Nel 2013 arriva la tua prima candidatura, ai Premi Ubu come miglior attrice per La Meccanica dell’Amore. Che cosa ha significato per te questo spettacolo e come hai reagito quando lo hai saputo?

Di questa candidatura mi sono accorta solo tre anni più tardi, nel 2016. Entrai nel camerino del mio collega Alessandro Riccio dicendogli: «Ale, siediti. Devo dirti una cosa e me ne sono accorta solo adesso». Iniziammo a ridere, restammo abbracciati e increduli. Era una semplice nomina; ciononostante, per quello spettacolo, voluto e messo su senza alcun finanziamento né santi in paradiso, ci sembrò un riconoscimento straordinario. La Meccanica dell’Amore resta uno dei miei lavori più importanti.

Da allora sono comunque arrivati dei premi. Nel 2019 sei stata eletta personaggio dell’anno dai lettori di 055firenze.it; nello stesso anno hai vinto il Premio Renzo Montagnani per il cinema, mentre nel 2021 hai ricevuto il Fiorino d’oro Confartigianato. Ce n’è uno, fra questi, che ti ha reso più orgogliosa?

Sono orgogliosa perché mi ricordo in maniera nitida le mani di coloro che mi hanno consegnato quei premi, a cui corrispondono delle persone con cui ho condiviso progetti, momenti, idee rivoluzionarie. Sono felice di ricordarmi di ognuno di loro. È terribilmente difficile sceglierne uno: facciamo che me li tengo tutti e tre.

Hai anche fatto esperienza della recitazione in carcere, con Gianfranco Pedullà. Che cosa ti ha maggiormente arricchito?

Pedullà è un maestro generoso, lo definirei un signore vero del teatro italiano. Faccio parte della sua compagnia da dieci anni ed è la prima persona che mi ha aperto le porte del carcere insegnandomi, senza insegnarmelo, che il teatro è innanzitutto un atto civile e di accoglienza. Mi ha sempre tenuta lontana dal pregiudizio: questo è il regalo più profondo del “Teatro Carcere”.

Nella tua carriera hai condotto anche dei programmi radio, prima su Radio Toscana, poi a Controradio. Che cosa ti manca di più di quel periodo?

Della radio mi mancano gli ascoltatori. La diretta ti permette un’interazione immediata col pubblico che ti segue e se per anni, come nel mio caso, trasmetti tutti i giorni alla stessa ora, alla fine gli ascoltatori diventano una famiglia allargata. Mi ricordo, per esempio, che il lunedì spesso me ne uscivo con: «Ragazzi, oggi dieta. Per davvero», e dopo qualche ora arrivavano in sede brioches e bignoline. Ti trovi catapultata nelle loro storie e loro nelle tue.

Ti abbiamo ritrovata al cinema con Leonardo Pieraccioni nel film Il sesso degli angeli e con Lillo e Greg in Gli idoli delle donne. Come cambia Gaia Nanni dal teatro al cinema?

Il linguaggio cinematografico ha regole e codici espressivi diversi da quello teatrale. Essendo uno spazio che frequento da meno tempo, cerco di essere molto concentrata e aperta ad imparare tutto quello che mi gira intorno e che ancora non conosco. Per una figlia unica come me trovarsi su un set con 60 persone solo di troupe è come se fosse Natale tutto l’anno. Può essere talvolta anche scioccante ma se dall’altra parte della camera hai Leonardo Pieraccioni allora tutto viene meglio. Respiro, sorrido e mi dico: «Che gran culo che hai, Nanni. Ora vai e fai un buon lavoro», e vado.

Fra radio, cinema e teatro, qual è la dimensione che preferisci?

Il teatro. È come la vita. Non si corregge, si va nudi e si piglia tutto quello che viene.

Quali consigli daresti a tutti coloro che oggi vorrebbero recitare?

Prendete un autobus, sedetevi in fondo e osservate chi viaggia con voi: le mani, le scarpe, gli occhi fuori dalle mascherine. Tra tutti questi sceglietene uno. Quella sarà la vostra persona, lo sconosciuto che dovete accollarvi. Il teatro è la più grande lezione di empatia che vi sarà concessa, accoglietela. 

Che cosa potrebbero fare le istituzioni per cercare di aprire le porte dei teatri a più persone possibile? 

Dovrebbero ricordarsi che il nostro primo referente è il pubblico e che dobbiamo tutto alla loro attenzione. Attualmente agli spettacoli vanno perlopiù le donne, di una fascia di età medio-alta. Se voglio parlare a un pubblico prettamente femminile, devo arricchire i modelli di narrazione e di rappresentazione che nel cinema e nella pubblicità sono estremamente stereotipati. Per quanto riguarda i ragazzi, invece, dobbiamo ripartire da loro. Mi piacerebbe che la drammaturgia contemporanea muovesse le basi da un teatro di indagine reale, fatto dalle loro parole e dai loro sentimenti. Basta parlare di giovani attraverso circoli di intellettuali annoiati, autori borghesi di 70 anni! Bisogna ripartire dal popolo. Un teatro di massa, fatto di operai, caldaisti, prostitute, teenager: questo è il mio sogno.

Che cosa possono fare, invece, gli attori e le attrici dal canto loro?

Noi che stiamo sopra al palco dobbiamo domandarci se ci stiamo esponendo o se ci stiamo esibendo. L’esibizione fine a sé stessa è meno invitante. Se prestiamo la nostra voce a chi non ce l’ha – non tanto per solidarietà, quanto per rappresentare il tessuto sociale – è un’azione che ha una rilevanza ben specifica. Siamo noi al servizio di queste persone: il nostro è a tutti gli effetti un servizio pubblico. Dobbiamo sganciarci da una dimensione narcisista che porta l’artista a sentirsi bene perché ha duecento paganti che sono venuti a vederlo e applaudirlo.

Foto: Alessio Chao