Mai dare per scontata la libertà: intervista a Vittorio Cecconi, il partigiano “Arrivabene”

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Abbiamo incontrato Vittorio Cecconi, per tutti il partigiano “Arrivabene”, per farci raccontare, dalla voce di chi l’ha vissuta davvero, la Resistenza e la liberazione di Firenze.

3 settembre 1943. A Cassibile (Siracusa), il generale italiano Castellano stringe forte la mano al corrispettivo statunitense Eisenhower. L’armistizio è appena stato firmato: l’Italia sancisce il proprio disimpegno nell’alleanza con la Germania nazista di Hitler, stabilendo al contempo la resa incondizionata agli Alleati. L’armistizio resta un segreto per cinque giorni, nel rispetto di una clausola interna al patto, la quale definisce che quanto concordato assumerà valore solo dopo l’annuncio pubblico. Alle 19:42 italiane dell’8 settembre 1943, l’EIAR – l’Ente italiano per le audizioni radiofoniche – trasmette il proclama Badoglio, con il quale il Primo Ministro di allora comunica alla nazione quanto successo qualche giorno prima. È l’inizio della Campagna d’Italia e della Resistenza italiana nella guerra contro la liberazione dal nazifascimo. Abbiamo intervistato Vittorio Cecconi, partigiano, che ci ha raccontato la Resistenza nella zona del Casentino e del Valdarno e la liberazione di Firenze.

Vittorio, a quale età e per quale motivo hai scelto di diventare partigiano?

Ero militare a Torino e, da quando sono scappato dall’esercito, sono diventato un fuggiasco. Arrivato nel mio paese, Castel San Niccolò, nel Casentino, sono stato perseguitato dai fascisti, che mi incendiarono la casa. Fu allora che decisi di diventare partigiano. Ho chiesto aiuto ai compagni della mia zona e mi “imbrancai” insieme ai miei tre fratelli. Da allora, nel 1943, ho preso parte alla Resistenza, fino alla fine della guerra, fino all’occupazione di Firenze.

Quali erano i tuoi compiti e di quale divisione facevi parte?

Facevo parte della Divisione Potente, Brigata Lanciotto. Inizialmente operavo nel Pratomagno e facevo incursioni per procurarci il cibo e il vestiario. All’inizio della Resistenza avevamo parecchio contatto con il Casentino, poi quelle zone sono state bruciate dai nazisti e allora abbiamo cominciato a prendere come riferimento la zona di Firenze, facendo base nel Valdarno.

Come hai conosciuto il comandante Potente, cioè Aligi Barducci?

Un giorno è venuto a trovarmi il prete di Donnini (frazione del comune di Reggello, ndr). Mi disse: «Ho avuto contatto con dei partigiani, vorrebbero lasciare la zona di Montegiovi (nel Mugello, ndr) e stabilirsi nella montagna di Secchieta (nel Pratomagno, ndr); cercano una persona che possa insegnare loro a conoscere la zona. So che sei pratico e conosci bene la mappa geografica, credo che saresti molto adatto. Te la sentiresti?» Io non ci ho pensato due volte a rispondergli di sì. Il giorno dopo sono venuti a trovarmi i partigiani Potente, Ardito e Livorno. Li ho accompagnati in montagna e, dopo averla ispezionata, hanno scelto il posto più adatto dove insediarsi con tutto l’apparato che era di base a Montegiovi. L’esercito partigiano presidiava ogni zona: dalla Secchieta fino alla Croce del Pratomagno. Io ero all’Uomo di Sasso (sempre nel Pratomagno, ndr), dove c’erano sia il comando sia un ospedale militare.

C’è un episodio in particolare della tua esperienza da partigiano che vorresti raccontarmi?

Sì. Dopo una quindicina di giorni che ero diventato partigiano e mi trovavo all’Uomo di Sasso, mi mandarono a fare la guardia al Varco di Reggello. Mentre ero lì, ho sentito un rumore; ho imbracciato subito il fucile e ho visto una persona sbucare dalle frasche. Allora ho gridato «Altolà!» e mi sono sentito rispondere: «Sono uno dei vostri, sono venuto a portarvi le ciliegie». Era un contadino con un somaro, arrivato da Cetica con due bigonce di ciliegie. Si è fermato accanto a me, me ne ha date una manciata. Dall’emozione ho abbracciato prima lui e poi il somaro. Siamo andati insieme fino all’Uomo di Sasso. Quando siamo arrivati i miei compagni hanno fatto una vera e propria festa! Poi, impressionato dal freddo che c’era nell’accampamento, il contadino ci ha chiesto se avevamo delle coperte per riscaldarci. «Abbiamo una coperta ogni due persone» ho risposto; e lui ha replicato: «Almeno le coperte sono necessarie». Abbiamo finito le ciliegie, ha ripreso le bigonce vuote, le ha messe sul somaro e se ne è andato via. Dopo due o tre giorni sento gridare: «C’è il compagno delle ciliegie». Al posto delle bigonce aveva due rotoli di coperte di tutti i colori e mi ha detto: «Alla sera ho fatto la riunione di caseggiato, il giorno dopo chi ne ha portate due, chi ne ha portate tre, le hanno levate dal letto per darle a voi partigiani».

In che modo avete abbandonato la zona del Casentino per spostarvi verso Firenze?

I tedeschi distrussero tutto quello che avevamo nel Casentino e arrivò l’ordine di partire per Firenze. Ci siamo avviati verso la città e anche due nostri compagni feriti sono voluti venire a tutti i costi con noi. A piedi ci siamo quindi trasferiti dall’Uomo di Sasso fino al Poggio alla Croce; da lì nei boschi di Candeli; là siamo stati per una decina di giorni a preparare l’incursione su Firenze, attraversando l’Arno a Rovezzano, per poi entrare in città da San Salvi.

Cos’è successo quando siete arrivati in città?

A Firenze siamo entrati in un rifugio dove non c’era nulla da mangiare. Il magazzino dove venivano conservati gli alimenti era stato assaltato dai tedeschi che avevano portato via tutto. Per tre giorni non abbiamo mangiato; abbiamo solo bevuto l’acqua che ci portava ogni tanto una signora, mentre aspettavamo il momento di insorgere. Dopo tre giorni siamo andati in Via Sassetti, in una tipografia abbandonata. Lì siamo rimasti altri quattro o cinque giorni: per nostra fortuna, arrivava da mangiare. A un certo punto abbiamo sentito scoppiare le mine dei ponti: era l’ora di scappare. Siamo fuggiti di corsa; speravamo che uscendo per le strade ci venisse dietro anche la popolazione, invece nessuno è venuto fuori dalle case. Ci applaudivano dalle finestre aperte e appena passati le chiudevano. Finalmente arrivammo vicino a Piazza Beccaria, per poi dirigerci alla conquista prima di Palazzo Vecchio, poi di Radio Firenze. Per completare la liberazione della città rimaneva da riprendere la Fortezza da Basso. Ci siamo nascosti in un edificio poco lontano, aspettando l’ordine di entrare. Abbiamo cominciato a sentire dei rumori forti e io sono saltato fuori dal nostro nascondiglio per vedere da dove venivano: uno dei miei fratelli mi ha preso per un braccio e mi ha riportato dentro al portone proprio mentre è arrivata una fucilata sulla soglia. Tutte le volte che sono tornato a Firenze mi sono sempre fermato a vedere quel buco, che lo sparo aveva scalfito nel muro. Ci hanno quindi dato l’ordine di caricare il fucile e sparare un caricatore a testa, in modo da fare una confusione tale da dare l’impressione che fossimo un esercito di mille soldati anche se eravamo solo in ottanta. Terminata la scarica abbiamo preso tutti un fucile, innestato le baionette e siamo corsi verso il portone della Fortezza da Basso: credevamo di trovare la porta chiusa e invece era aperta e dentro non c’era nessuno. I tedeschi erano scappati dalla porta posteriore. Lì siamo rimasti per una ventina di giorni, fino alla consegna delle armi agli inglesi e agli americani. Parecchi dei nostri che stavano verso Bologna sono rimasti volontari a combattere per la Resistenza; chi, come me, abitava verso Arezzo, ha fatto ritorno a casa a cercare i genitori che erano scappati dalle loro case.

Il fascismo ha subito un adeguato processo di condanna dopo la fine della guerra?

No, il fascismo in Italia non è stato definitivamente condannato. Dopo la fine della guerra, il Governo Italiano presieduto da De Gasperi approvò una legge di amnistia nel 1946 (Decreto presidenziale di amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari, Ndr) che condonava tutti i reati commessi da fascisti e partigiani. Di fatto, non si poté più condannare né gli uni né gli altri e ognuno fu libero di riprendere il posto che aveva in società. Dato che gran parte dei fascisti erano nei posti di comando, un vero processo di condanna del fascismo non c’è mai stato. Le istituzioni avrebbero potuto e potrebbero fare di più per onorare la Resistenza.

C’è qualcosa che cambieresti nella tua esperienza di partigiano? Ne è valsa la pena?

Penso che diventare partigiano fosse la scelta migliore da fare in quel periodo. Eravamo delle persone molto integre: avevamo l’ordine di non attaccare i tedeschi, perché se venivano attaccati poi si rifacevano contro la popolazione civile. Rifarei tutto quello che ho fatto, mi sembra di non aver sbagliato niente.

Testo di Sacha Tellini, Foto di Alessio Li.