Roberto Baggio a Firenze: il sogno e il risveglio

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«Da quando Baggio non gioca più, non è più domenica».

Cesare Cremonini

18 febbraio 1967, Caldogno, una piccola cittadina in provincia di Vicenza, un antico borgo romano divenuto celebre avamposto ghibellino durante le scorrazzate di Federico Barbarossa. È da poco iniziato un anno molto particolare, l’atmosfera intorno a tutto il mondo si fa decisamente più gassosa, agitata da un fervore che attraverserà la Terra intera: siamo nell’immediata vigilia di quello che sarà semplicemente ricordato come il sessantotto.

In gennaio le truppe statunitensi vengono respinte sul delta del Mekong, la guerra in Vietnam è giunta al dodicesimo anno d’angoscia, un logorio disastroso che sta segnando un’epoca. In un pub di Londra John Lennon e Paul McCartney stanno scrivendo e musicando una delle canzoni che cambieranno la storia, e non solo quella della musica, stanno preparando il mondo alle crociate dell’amore e All You Need Is Love ne sarà l’inno glorioso. 

L’Italia è scossa dall’ennesimo terremoto scandalistico e spalanca la bocca di fronte alle clamorose rivelazioni di Ferruccio Parri, spionaggio e corruzione, un film già visto che avrà un sequel più o meno infinito. Ma il 18 di febbraio 1967 diventerà una data famosa perché, appunto, a Caldogno nasce un certo Roberto Baggio. È il sesto di otto fratelli in una famiglia laboriosa tipicamente veneta. Il padre è un carpentiere devoto solo all’etica del lavoro, la madre gestisce una casa che sembra una scuola, con bambini di tutte le età. 

Perché Roberto? Perché il padre ama molto il ciclismo, infatti il suo ottavo figlio si chiamerà Eddy, in memoria del grande Merckx, ma è anche un appassionato di calcio, e i suoi idoli sono Boninsegna dell’Inter e Bettega della Juve. Non s’immagina affatto che quel bambino appena nato, raggiungerà quei due mostri sacri di “Roberto”, in cima all’olimpo del pallone.

Il piccolo Baggio è un bambino dai lineamenti vagamente asiatici, esile, timido e sensibile, talmente sensibile che ogni volta che passa un’ambulanza piange, come confesserà anni dopo. Il problema di Roberto è che da subito, fin da piccolissimo, sembra soffrire di una vera e propria patologia: è malato di calcio.

Il piccolo Roby trasforma qualsiasi oggetto in un pallone e le porte di casa sua non avranno le reti che si gonfiano ma non importa, lui gol lo fa nel bagno, poi in salotto, il corridoio è lungo e stretto, ma pieno di avversari immaginari, lui li salta tutti, esattamente come farà poi, con quelli veri.

A Caldogno c’è un impianto sportivo dove si allenano tutti, grandi e piccini, cambiano gli orari ma c’è una scritta che campeggia all’ingresso, quella vale per tutti: «CHI NON SI PRESENTA NON GIOCHERÀ MAI PIÙ».

Chi crede fortemente in questo principio è un certo Zenere, la notte fa il fornaio, il pomeriggio è l’allenatore dei ragazzi, tra questi bambini un giorno si presenta Roberto Baggio, lui nella sua vita giocherà sempre, anche quando non si presenterà. «Stò tostatèlo xe un fenomeno! Xe’l nuovo Zico.»

Nel 1983 l’Udinese aveva pagato la cifra bomba di 6 miliardi di vecchie lire, che all’epoca erano decisamente molte, per assicurarsi le prestazioni di Arthur Antunes Coimbra, meglio noto come Zico. Al suo primo anno in Italia aveva fatto impazzire tutto il Friuli – ma anche il vicino Veneto. Si narra che le scuole calcio organizzassero delle gite per vedere gli allenamenti del fenomeno brasiliano, e che i bambini prendessero appunti su un quaderno, che poi speravano di farsi autografare. Steve Jobs aveva solo 28 anni e non aveva ancora inventato l’IPhone, quindi niente selfie.

L’Udinese versò i 6 miliardi precisamente l’11 giugno 1983, probabilmente nella stessa fascia oraria in cui, nel campionato di serie C1, a Vicenza, faceva il suo ingresso in campo, per la prima volta tra i grandi, Roberto Baggio.

Aveva solo 16 anni ma l’uomo che parlava così di lui, in dialetto veneto, si chiama Giulio Savoini e sarà uno dei personaggi che Baggio si porterà nel cuore per sempre. Quel ragazzino con i riccioli non ha ancora l’età per giocare in prima squadra, ma chi se ne frega, è troppo forte.

Corre tra gli avversari come un fulmine, e salta tutti con una semplicità disarmante, agli allenamenti i più vecchi si arrabbiano, questo furetto tira dritto verso la porta e non si ferma. Ripercorrendo le tappe della sua infanzia, Roberto dirà: «Avevo solo un pensiero: prendere la palla e andare dritto in porta!».

Ci sono poche e sbiadite immagini del suo primo anno da professionista, ma in quelle inquadrature dal basso, tipiche dei filmati delle categorie inferiori di quegli anni, si vede benissimo che un corpo estraneo, con la maglia biancorossa, attraversa il campo da calcio alla velocità di una supernova. Si vedono i volti affranti degli avversari – che ricordano un po’ quello de L’urlo di Munch – il ragazzino non si ferma, né con le buone, né con le cattive.

La stagione 1983/84, è la prima da professionista, Baggio si divide tra gli allenamenti e la piccola fabbrica del padre, non si sogna neppure di abbandonare il lavoro di famiglia, tanto che l’anno successivo, con gli occhi delle grandi squadre di serie A puntati su di lui, dirà: «Se dovessi andar via da Vicenza, continuerò la mia vita tra calcio e fabbrica, spero solo che mio padre mi conceda qualche giorno di riposo in più». Non ha ancora capito che lui è venuto al mondo per una cosa sola: giocare a pallone.

Siamo nel 1985, in Italia è successo di tutto, è sceso il grande gelo, a Firenze, la notte del 12 gennaio sembra di essere nella Terra del Fuoco: -23 gradi. Milano si risveglia coperta da 70 cm di neve, è la nevicata del secolo. Roma s’imbianca come Cortina D’Ampezzo, ma a Montecitorio il clima è rovente: in febbraio il parlamento approva il “Decreto Berlusconi” noto anche come “Berlusconi Bis”, sono gli inizi di un impero su cui non è ancora tramontato il sole.

Intanto Michael Jackson e la fondazione USA for Africa registrano “We are the world, forse inconsapevoli di aver inciso uno dei singoli più famosi della storia della musica mondiale. È il 5 maggio, poche settimane dopo il sorprendente Hellas Verona di Osvaldo Bagnoli e Hans-Peter Briegel vincerà uno storico scudetto. Appena altri dieci giorni dopo sul mondo del calcio calerà una coltre di nebbia indelebile che lo segnerà per sempre: a Bruxelles si consuma la terribile “strage dell’Heysel”. 

È il 5 maggio dicevamo, la Fiorentina ha già deciso di far diventare Roberto Baggio, uno dei giovani più pagati della storia della serie A, il ragazzino ha stupito tutti quanti con 12 gol in 29 presenze, risultando decisivo per il salto di categoria del LaneRossi Vicenza.

È l’ultima partita della stagione, poi Roberto partirà per le vacanze e il prossimo anno non potrà più aiutare il padre nell’officina da carpentiere, perché sarà a qualche centinaia di chilometri di distanza, oltre l’Appennino. Ha già firmato un contratto con la squadra viola, la cifra che la Fiorentina spenderà per averlo è 100 volte più alta di ciò che Baggio poteva sperare di guadagnare in una vita di lavoro col babbo. 

Di fronte c’è il Rimini di un allenatore un po’ particolare per Roberto, un mister che muove i primi passi nelle categorie inferiori per poi reinventare il gioco del calcio: Arrigo Sacchi. I due si ritroveranno, eccome se si ritroveranno.  Un urlo, un grido di dolore, «Correte correte, questo ragazzo si è fatto male veramente!», l’arbitro si rivolge così alla panchina e al capannello di giocatori che si crea intorno a quel giovane talento. Rottura del crociato e del menisco della gamba destra, oggi sarebbe un infortunio grave con lunghi tempi di recupero, a metà degli anni ’80 per una cosa del genere, si rischia di non giocare più.

A Firenze, intanto, si discute sul da farsi, 2 miliardi e 700 milioni spesi per un ragazzino che rischia di non giocare più sono davvero tanti, c’è una clausola che permette di recedere dal contratto, ma Ranieri Pontello, presidente del club, non ha dubbi: «Il ragazzino ce la farà, lo prendiamo lo stesso e lo facciamo curare, vedrete che tornerà a giocare». Tornerà a giocare. Diventerà uno dei più forti di tutti i tempi.

Intanto vola in Francia a farsi operare, nella clinica di Saint-Etienne il professor Bousquet è costretto a mettere 200 punti di sutura per risistemare la gamba del ragazzo. L’intervento è riuscito e da adesso in poi, comincia un’altra storia.

Una storia che tutta Firenze conosce molto, molto bene. Anni di magie e lacrime, di glorie e di rimpianti. Il silenzio, le polemiche, la rabbia, i segreti, le rivelazioni, una sciarpa raccolta con l’amore di chi parla con i fatti. Una storia che scolpisce il volto di un campione speciale nel mausoleo dei grandi artisti che affrescano l’orgoglio di una città intera.

Illustrazione di Augusto Titoni