Una selva di mani: in viaggio tra i luoghi di Dante

luoghi dante firenze

Una tomba vuota, una casa feticcio e un murale a sei facciate: tra passato e presente in viaggio tra i luoghi di Dante a Firenze.

Sembra uno dei suoi feroci e sottili contrappassi, come quelli riservati ai seminatori di discordie ridotti a cadaveri ambulanti e macellati o i consiglieri fraudolenti imprigionati in delle lingue di fuoco. Una tomba nel gran tempio delle glorie d’Italia, nella sua amata-odiata Firenze, nella chiesa francescana dove aveva studiato teologia e davanti alla quale troneggia solitaria un’altra sua statua arcigna, un’aquila come segugio al fianco. Una tomba riverita, e vuota. 

Lui, che tante volte aveva raccontato il filo tenace che lega l’anima al corpo e alla propria sepoltura (Napoli l’ha e da Brandizio è tolto […] l’ossa del corpo mio sarieno ancora in co del ponte presso a Benevento,/ sotto la guardia de la grave mora./ Or le bagna la pioggia e move il vento […] Lo corpo mio gelato in su la foce/ trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse ne l’Arno,/ e sciolse al mio petto la croce/ ch’i’ fe’ di me quando ’l dolor mi vinse;/ voltòmmi per le ripe e per lo fondo,/ poi di sua preda mi coperse e cinse) anche nella morte vede perpetuarsi quell’esilio che fu sua condizione fisica e spirituale, una presenza e attenzione espresse proprio dalla lontananza rispetto all’oggetto amato. Come gente che pensa a suo cammino/, che va col cuore e col corpo dimora. 

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Foto di Alessio Chao

Eppure le strade che si diramano tutte intorno, in quella città così bella e spigolosa, eterna adolescente, portano ancora il sigillo dei suoi occhi, di quella vita più unica che rara che vide in sé assommarsi i destini di Trockij e Solženicyn. Take comfort in the cadence of the bond we share, cantano i Counterparts. 

Le targhe coi suoi versi possono solo indicare le case e gli eventi più celebri: Cavalcanti, Forese, Brunetto, gli odiati Cerchi. Ma dov’è esattamente che lui ha visto un sarto assottigliare gli occhi per infilare l’ago nella cruna, un giocatore di carte disperarsi in una taverna, un ramarro guizzare in una strada assolata, una ragazza sbrigare le faccende di casa al balcone cantando come donna innamorata

Quegli stessi dettagli, quegli incontri fuggevoli sono ciò che gli permetterà di raccontare bestemmie senza fine in stagni di merda, spettri che si purificano con occhi cuciti dal filo spinato, diamanti di luce che tremolano di gioia estatica come nell’orgasmo. Tempo e spazio più che lambiti dall’eterno, come succede agli edifici delle città di mare, compenetrati in esso, sovrapposti. Non c’è differenza. Cielo è terra, si intitolava una mostra di William Congdon. 

Questa contemporaneità perenne e scandalosa si fossilizza spesso nel culto tributato dai secoli successivi, giacché svaniti gli dèi ci restano solo gli oggetti, notava Proust. Il mito di Dante accompagna e cementifica l’unità nazionale, viene brandito da carbonari, massoni, cattolici e fascisti, mentre i pellegrinaggi dell’élite sociale e intellettuale europea e mondiale tracimano nel turismo di massa

Ecco che anche la ricostruzione neogotica della sua casa («stretta stretta e di un’austerità feroce» secondo Palazzeschi) si inserisce nel più vasto parco giochi medieval-rinascimentale cui svariate amministrazioni hanno voluto e vogliono ridurre Firenze, offrendo una riconoscibilità assoluta e raggelata come festuca in vetro. Solo la notte, quando non puoi comprare né vendere, scriveva Ritsos, si riprende tutto o quasi tutto, permette di intercettare ancora, in quegli stessi spazi, il battito segreto della città, diffonde le note di un pianoforte da una finestra aperta, le risate da un appartamento di studenti. Talvolta la medesima pulsazione torna invece da luoghi e tempi lontani, come un’eco che rimbalzi indietro, faccia il giro del mondo e suoni come una voce diversa, quasi irriconoscibile. 

Quando ho visto per la prima volta i murales di Francisco Bosoletti al Galluzzo, è a questo che ho pensato. Una selva di mani, un mare livido, forse gravido di navi affondate, fili neri come quelli delle marionette o lacrime scure o una tintura per capelli che coli sulla faccia di chi guarda. I corpi risorti si ridestano con fatica michelangiolesca e un languido desiderio che li fa protendere, ancora semiaddormentati, rifrazione estrema e chissà se consapevole o meno del bisogno d’essere giudicate delle anime che in Inferno III si struggono da questa nostra riva sul fiume dei morti, immagine icastica dell’intero processo di scrittura della Commedia, il desiderio comunque vada di trasformare la sequenza più o meno casuale dei nostri eventi individuali e collettivi in una storia comprensibile, raccontabile, nel bene o nel male. Inferno, Purgatorio, Paradiso? Non si sa più, il cammino si è fatto incerto, confuso. L’omaggio riconoscibile sfuma nell’anonimato, in immagini così condivise e diffuse che ormai sono tutt’uno con le interpretazioni di Botticelli, le litografie di Dorè, la devozione religiosa nei breviari delle nonne emigrate in Sudamerica. Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai. Il nostra pare aver inghiottito l’io sottinteso del verso successivo, il mare si richiude, la storia, le sue immagini e parole si scompongono nuovamente in un alfabeto che precede e comprende qualunque parola possiamo pronunciarvi oggi.

Testo di Edoardo Rialti

Foto di copertina: Alessio Chao