Dopo l’esposizione che ha riaperto le porte di Sant’Orsola, per decenni inaccessibili, l’artista siciliano Alberto Ruce si racconta a FUL.
Alberto Ruce, classe 1988, è un artista urbano e pittore, siciliano di nascita ma da qualche anno residente a Marsiglia dove ha aperto il suo studio. Lì lavora a diversi progetti artistici che gli permettono di intessere un legame tra Francia e Italia. L’abbiamo conosciuto lo scorso anno in occasione della prima mostra d’arte contemporanea del futuro Museo Sant’Orsola – che troverà casa dal 2025 nell’omonimo e antico convento – tenutasi prima dell’apertura ufficiale che avverrà solo a complesso totalmente restaurato.
L’esposizione che ha riaperto le porte di Sant’Orsola, per decenni inaccessibili, ha presentato i risultati della ricerca di due giovani artisti contemporanei: Sophia Kisielewska-Dunbar e Alberto Ruce appunto, i quali hanno realizzato un progetto creativo unico, ispirandosi alla storia del luogo, vivendo e lavorando per un periodo a Firenze.
Noi di FUL a quella mostra c’eravamo e siamo rimasti colpiti dal lavoro di Alberto, dalla sua tecnica tanto quanto dalla sua poetica e abbiamo deciso di incontrarlo e fargli qualche domanda per sapere di più di lui e del suo lavoro, in attesa di vederlo di nuovo all’opera nel capoluogo toscano.
Hai iniziato fin da adolescente ad approcciarti all’arte tramite sprays e tagging, per poi proseguire da autodidatta, confrontandoti soprattutto con i graffitisti, e solo in seguito hai affrontato studi più accademici, frequentando Atelier des Beaux-Arts de Paris. Puoi raccontarci meglio della tua formazione artistica?
Più che una formazione artistica, definirei il mio percorso fino ad ora come un’evoluzione. Fin da adolescente il mondo hip-hop mi ha sempre affascinato e mi divertivo con il lettering. Poi ho scoperto i graffiti, che sono stati il mio primissimo banco di prova. Il primo intervento ho deciso di farlo a 13 anni circa, quando andavo alle medie; un giorno qualcuno intervenne sulle mura della mia scuola e in quel momento i graffiti e le opere su muro sono passati da semplice arredo urbano che ero abituato a vedere in giro per la città a qualcosa che entrava di botto nel mio quotidiano. Dopo poco ho conosciuto l’autore di quell’intervento che mi ha spiegato le prime nozioni di graffitismo e mi ha accompagnato a fare il mio primo graffito con lo spray.
Da quel momento è cominciata la mia esplorazione e la mia voglia incontenibile di dipingere. Ho iniziato quindi ad andare in cerca dei “miei simili” fino ad arrivare a conoscere i writer più importanti di Catania, prendendo parte alle jam regionali. In quelle occasioni, guardando i writer dipingere, ho imparato le tecniche, confrontandomi con loro riguardo il mio lavoro. Poi nel 2009 mi sono trasferito a Parigi dove ho risieduto per cinque anni e ho iniziato a frequentare degli squat in cui artisti dipingevano, così come facevano sui “muri di libera espressione” e ho iniziato a conoscere un mondo espressivo molto più ampio, che non era più solo quello del tagging o del lettering.
A quel tempo io già trattavo la lettera come se fosse un oggetto, sfruttandone la tridimensionalità e affrontandone lo studio di luci e ombre e sentivo crescere in me l’esigenza di approfondire lo studio pittorico. Così ho deciso di frequentare i corsi di disegno, pittura e prospettiva dell’Atelier des Beaux-Arts, imparando le tecniche base per riuscire a fare quello che avevo in mente, strutturando e sviluppando bene un’idea e un progetto, creando un quadro da tanti sketch e apprendendo le basi della tecnica pittorica.
I miei lavori hanno iniziato in quel momento a deviare verso uno stile cartoon-fumettistico, finché non sono passato al figurativo vero e proprio, con paesaggi e ritratti, iniziando a esplorare davvero. Questa evoluzione continua arriva così fino ad oggi, cercando sempre di più di identificare il mio stile, fedele al memento lasciatomi dal mondo hip-hop.
Attualmente ti dividi tra interventi nel tessuto urbano e pittura in studio. C’è una parte del tuo lavoro che ti rispecchia più dell’altra? E come cambia il tuo approccio tecnico al lavoro su parete o su tela?
Io essenzialmente preferisco sempre i muri; da lì provengo, è la mia zona di confort ed è lì che riesco a trovare meglio il senso di quello che faccio. Quando lavoro in strada mi confronto immediatamente con la reazione delle persone e sento di avere una responsabilità nei loro confronti perché in quel momento non hanno possibilità di scelta, semplicemente si imbattono nel mio lavoro; quindi sento di doverlo fare anche per loro, oltre che per la mia esigenza espressiva.
Inoltre credo che sia un progetto sociale, un lavoro con e per la comunità di quel determinato quartiere in cui intervengo. In questo sta la mia soddisfazione, nel trovare il confronto e vedere la reazione delle persone. Il lavoro sulla tela invece può avvenire per altre ragioni: molte cose sono nate sul tessuto urbano e poi le ho portate in studio, per lasciare traccia e testimonianza dello stile e del lavoro di quel determinato momento, dato che dalla parete prima o poi scompariranno. Altre volte invece faccio il processo inverso, passo dalla tela alla parete, e questo è il caso in cui mi trovo a sviluppare un progetto più complesso per cui non posso essere così fugace come quando agisco direttamente sul muro e ho bisogno di maggiore progettualità, ma è molto più raro.
È il caso ad esempio del progetto 4’33’’: il titolo di questa serie si ispira alla canzone del musicista John Cage, che nel 1952 compose un’opera di 4 minuti e 33 secondi di silenzio assoluto. Ispirato da questo pezzo e dal concetto di vuoto, creato per ascoltare tutto ciò che ci circonda, tra il 2013 e il 2017 ho realizzato una serie di dipinti su tela e su legno con diversi mezzi – principalmente spray e pittura acrilica – in un unico monocromo di bianco, per ricercare costantemente l’equilibrio tra ciò che vediamo e ciò che non percepiamo, spingendomi verso la soglia della percezione ottica, quando un’immagine sembra non esistere e quando immediatamente diventa percepibile.
Ci sono delle tematiche che ti stanno particolarmente a cuore e che ricorrono nei tuoi lavori?
La motivazione principale con cui dipingo è sempre testimoniare qualcosa che mi parla, che mi smuove. Scelgo sempre il soggetto e il tema dei miei lavori o di una determinata serie partendo da qualcosa a cui sono legato emotivamente. Prediligo tematiche empatiche, poetiche e nostalgiche; amo parlare di sentimenti, di concetti che vanno oltre il concreto e il tangibile come ad esempio la politica. In questo senso mi sento molto lontano dal concetto di street artist politico come lo è Banksy; io mi sento più un artista pittorico e utilizzo il simbolismo, non gli slogan, senza nulla togliere ovviamente a chi ne fa uso.
Il tuo stile è molto particolare e immediatamente riconoscibile. Le tue opere dipinte tono su tono con sfumature di bianco e di grigio, sono effimere e leggere e sembrano quasi affiorare delicatamente in superficie. L’effetto finale è simile a quello di una sinopia preparatoria, con tutto il dettaglio e l’accuratezza di un affresco finito. Puoi spiegarci la tua tecnica e come riesci a ottenere questo effetto?
Una delle cose più importanti per me è la palette colori, per cui c’è un grosso studio sulle tinte che uso, che siano acrilico, olio o spray e faccio molto lavoro per capire quanto un colore è contrastante utilizzando anche Photoshop per fare delle prove sull’effetto finale. Sulle grandi dimensioni inoltre dipingo sempre a spray e quindi anche il tempo è uno dei miei strumenti: la vaporizzazione e il tempo di sedimentazione del colore, cioè quando e come si deposita e “appare” sulla superficie. Non effettuo alcun disegno preparatorio, dipingo come se fossi uno scultore: dal muro bianco e piatto devo tirare fuori la tridimensionalità, aggiungendo e levando dalla parete il colore di base, lasciando parti esposte e altre come se rimanessero indietro.
Dipingo colore per colore, strato per strato, mettendo alcune zone in rilievo, creando velature di colore. Nella parte finale a volte e solo in determinati interventi, cancello anche l’opera, applicando della pittura sopra, non in maniera definitiva e assoluta ovviamente, ma cercando di ottenere un effetto di semitrasparenza quando la pittura si asciuga. Questo atto per me è bellissimo perché rappresenta l’elemento di inatteso che non posso fino in fondo controllare. Serve per ricordarmi di non far prevalere la tecnica sull’emozione, a non farmi sentire un automa che ha pieno controllo su ciò che fa, un mero decoratore, perché è nell’improvviso e nell’imprevisto che troviamo l’arte.
Da marzo a maggio 2023 hai preso parte al progetto Museo Effimero a Sant’Orsola. Puoi raccontarci di questo progetto a Firenze?
Per quel progetto ho passato tanto tempo a cercare il soggetto giusto e a fare ricerca su Sant’Orsola, anche nel tentativo di integrarmi con il tessuto urbano e con chi vive in quel luogo, affinché recepisse le mie opere finite come proprie. Il progetto, intitolato Al di là di tutto, si articolava in due ambienti: l’antica chiesa conventuale e l’ex spezieria. Ricollegandomi alla diversa funzionalità di questi spazi, ho scelto l’antica chiesa per la realizzazione di un’installazione che si ispira alla storia di Lisa Gherardini, la presunta modella della Gioconda di Leonardo da Vinci, che trascorse i suoi ultimi anni di vita nel convento di Sant’Orsola, assieme a sua figlia che vi era monaca. Dei vari spunti che ho trovato ho scelto di parlare proprio della Monna Lisa perché per me rappresenta l’emblema della pittura e a questo volevo rendere omaggio, usandola come simbolo.
C’è stata inoltre una parte molto emotiva e sentimentale nel lavoro: per questa rappresentazione ho scelto infatti come modelle due donne, madre e figlia, abitanti del quartiere di Sant’Orsola e che lavorano al mercato di San Lorenzo. È stato un modo per collegare storia passata e presente, creando un legame profondo e duraturo che unisca un luogo storico alla memoria collettiva attuale. Mi sono divertito molto a incontrare le persone perché, come ho già detto, la parte sociale del mio lavoro è fondamentale per me. Per quello stesso progetto ho lavorato anche con Rocco Spina, professore di scultura dell’Accademia che mi aiutato a realizzare un calco per fare delle chiavi in cera – materiale che ho sperimentato per andare incontro all’essenza effimera del progetto, in quanto materiale mutevole e metamorfico, così come gli spazi di Sant’Orsola in corso di restauro.
Che ne pensi del panorama artistico contemporaneo nella “culla del Rinascimento”?
Vivendo all’estero posso dirti che Firenze e la sua cultura rappresentano una lingua universale, qualcosa che è veramente noto in tutto il mondo e da italiano mi rende fiero che tutte queste persone la conoscano e la vogliano visitare; allo stesso tempo ho avuto anche la sensazione che Firenze sia davvero invasa dai turisti e che si stia perdendo molto altro. Qua in Francia ad esempio c’è in atto un grandissimo investimento nel settore contemporaneo e nella street art in particolare.
Firenze si deve rendere conto che attualmente l’arte contemporanea è in strada e che si sta perdendo tanto non occupandosi di questo settore che è in continua crescita. L’arte di strada a Firenze è relegata fuori dal centro storico ma se fosse portata nel cuore della città, non si comprometterebbe certo il suo ruolo di “culla del rinascimento”. Anzi, proprio dal suo passato glorioso, il capoluogo toscano potrebbe sfornare tantissimi artisti e talenti anche in ambito contemporaneo. Invece la mia sensazione è che non si preoccupi di fornire nuovi stimoli alla futura generazione di artisti che lì studiano o la visitano.
Puoi raccontarci un progetto passato a cui tieni particolarmente? E invece, progetti futuri?
In qualche modo le due risposte coincidono: attualmente infatti è in corso una mia mostra personale su un progetto che ho particolarmente a cuore, iniziato nel 2018. Si tratta di Transumanze, una serie di opere che nasce dopo essermi trasferito nel sud della Francia, cercando di ricostruire un legame con la mia terra natale, la Sicilia, ricca di usanze e origini rurali. In quel momento mi sono reso conto di far parte di un movimento globale di micro migrazione e ho cercato di rappresentare dunque questa tematica tramite un parallelismo con immagini che rappresentano la transumanza animale, una similitudine che riporta ad un mondo che rischia di scomparire.
Le immagini che nutrono questa ricerca artistica sono state raccolte nel corso degli anni in piccoli borghi in Italia e in Francia, entrando in contatto con associazioni locali e realtà marginali autoctone dei posti dove di solito mi trovavo a dipingere i miei murales. Durante vari anni di lavoro ho infatti realizzato vari interventi in borghi Siciliani che rischiano lo spopolamento, oltre che in piccoli paesini e in grandi città europee, per sensibilizzare le persone sul tema.
Foto a cura di Alberto Ruce