“Assorbito nella contemplazione della bellezza sublime, la vedevo da vicino, la toccavo per così dire. Ero giunto a quel livello di emozione, dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un tuffo al cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere.”
Sono le parole colme di passione di un visitatore di Firenze, un certo scrittore francese di nome Marie-Henri Beyle, un viaggiatore instancabile che si è fatto conoscere dal mondo con uno pseudonimo: Stendhal.
Chi non hai mai sentito parlare della celebre “sindrome di Stendhal”?
E’ un’espressione entrata ormai di diritto nel gergo comune e spesso la usiamo senza conoscerne il significato preciso. Ma sapete che questo mistico disturbo psicologico ha origine proprio nella nostra Firenze?
Era il 1817 quando Stendhal visitò Firenze durante il suo primo viaggio in Italia, appassionato di arte e letteratura, lo scrittore francese rimase decisamente sconvolto alla vista dei capolavori della “culla del Rinascimento”, tanto da avvertire degli strani sintomi.
Capogiro, allucinazioni, battiti del cuore accelerati: “troppa grandezza, troppa bellezza per gli occhi di un semplice uomo mortale”, scrisse.
Potremmo pensare alle esagerazioni poetiche di uno scrittore folle d’amore per l’arte, ma questo disturbo fu studiato e riscontrato in un centinaio di turisti più di cent’anni dopo, dalla psichiatra fiorentina Graziella Magherini.
Analizzando i sintomi su diversi viaggiatori, generalmente tra i 25 e i 50 anni, solitamente studiosi di arte o letteratura, la dottoressa Magherini diagnosticò la “sindrome di Stendhal”: un disturbo psichico generato dalla visione della grandiosità e magnificenza dell’arte.
E come dar torto a Stendhal o alla dottoressa Magherini?
Ci sono angoli di Firenze che lasciano decisamente senza fiato, spesso, abituati a passare tutti i giorni dalle vie o dalle piazze, per andare a lavoro o semplicemente per uscire a cena, non ci rendiamo conto del tesoro che il nostro sguardo accarezza.
Come il nobile non si accorge di quanto sia fortunato a non morire di fame, perché così è nato e così è abituato, ci scordiamo di quanta bellezza ci passa di fronte agli occhi, che a nostra insaputa, si abbuffano ingordi, facendo incetta di immagini.
Di uno spettacolo in particolare vorremmo parlare in questi termini, uno spettacolo per cui, il fiorentino, non paga neppure il biglietto.
LA LOGGIA DEI LANZI
Quante volte siete passati da Piazza Della Signoria, magari la sera, con il buio rotto da luci artificiali in posizioni strategiche, che illuminano decine di statue nella penombra?
Vi siete mai soffermati a riflettere sulla grandezza, sulla bellezza di un luogo senza tempo?
Un luogo che la storia dell’arte ci ha consegnato senza chiederci niente in cambio, solo una cosa: accorgersene.
In questo spettacolo di meraviglia c’è un loggiato speciale, che non ha nulla da invidiare ad un vero e proprio museo, è una galleria a cielo aperto, contiene statue preziose, dense di significato: è la Loggia dei Lanzi.
Ancora si dibatte sul nome di questa specie di tempio dell’arte, si ipotizzò che fosse perché nel 1527, i Lanzichenecchi, soldati mercenari di fanteria arruolati nelle regioni tedesche del Sacro Romano Impero, terribili e spietati guerrieri, alloggiarono sotto il porticato diretti a Roma.
In seguito è stato però dimostrato che il nome deriva sì dai Lanzichenecchi, ma perché alcuni di loro facevano parte dell’esercito di Cosimo I de’ Medici, signore di Firenze dal 1537 al 1569 ed alloggiavano proprio qui, di fronte a Palazzo Vecchio.
Osservare la loggia con attenzione può provocare la temuta “Sindrome di Stendhal”.
Questo spazio nacque nel ‘300 per celebrare cerimonie pubbliche, quali gli insediamenti delle Signorie alla presenza del popolo, o assemblee generali; con i suoi archi “a tutto sesto”, è una sorta di anticipazione delle rivoluzioni architettoniche rinascimentali, avviate dal genio Brunelleschi.
Nella meta del ‘500 proprio il Granduca Cosimo I, fece sì che la loggia diventasse un forziere di sculture, ammirabili da tutti coloro che passavano per la Piazza, chiunque doveva inebriarsi della grandezza di Firenze.
Nacque uno dei primi spazi espositivi del mondo; Cosimo I fece sistemare le statue con criteri precisi, in linea con il resto delle rappresentazioni presenti nella piazza, e volle che i soggetti avessero densi significati politici.
Su tutte le sculture, due si ergono maestose, preziose per i loro soggetti e per le mani che l’hanno create: “Il ratto delle Sabine” del Giambologna e il “Perseo con la testa di Medusa” di Benvenuto Cellini.
IL RATTO DELLE SABINE
è uno degli episodi più celebri dell’antichità, avvolto dalla leggenda.
Si narra che Romolo, fondatore di Roma avesse bisogno di donne per dare vita al suo nuovo popolo di guerrieri conquistatori, si rivolse al vicino popolo dei Sabini che rifiutò di collaborare, così l’intrepido comandante organizzò un inganno con cui attirò i rivali nelle sue terre e rapì tutte le loro donne.
E’ un monito di astuzia e d’intelligenza, una celebrazione della Signoria de’ Medici: l’arguzia, la sfrontatezza, la superiorità dell’intelletto, sono le caratteristiche che hanno permesso alla famiglia ed ai suoi esponenti di mantenere il potere per così tanto tempo.
La statua è un capolavoro in marmo di oltre 4 metri, si scorgono tre figure: un ardimentoso romano che tiene in braccio una giovane fanciulla sabina, ed ai loro piedi, disperato, un vecchio sabino supplica il soldato di non portare via le loro donne.
Definita anche “la statua delle tre età”, proprio per i tre momenti della vita umana che rappresenta, è un intreccio suggestivo che trasmette agli occhi un passionale movimento delle figure, che sembrano uscire animate dallo spazio e contorcersi di fronte al nostro sguardo.
PERSEO CON LA TESTA DI MEDUSA è un’altra leggenda dell’antichità che racconta dell’incomparabile perspicacia di un guerriero. Perseo, intrepido greco, deve affrontare la perfida Medusa, figura mitologica coi capelli di serpi, in grado di pietrificare chiunque incrociasse il suo sguardo.
Con un furbo stratagemma, Perseo riesce ad ingannare la malvagia rivale: il suo lucido scudo riflette l’immagine di Medusa, cosicché lui possa vederla senza restare immobilizzato, a quel punto le mozza la testa con la sua spada.
A celebrare l’acume e l’ingegno degli oligarchi di Firenze, stavolta è il Cellini, mirabile maestro del bronzo.
In un’impresa definita “epica” dallo stesso Cellini, nelle sue memorie, la fusione del bronzo fu effettuata secondo il nuovo metodo rinascimentale, che non consisteva più nell’assemblare più parti fuse, ma nell’usare unici blocchi per ogni figura.
Per riuscire a fondere così grandi pezzi di bronzo, il maestro fu chiamato a sforzi incredibili: assalito da febbri, forse causate dalle esalazioni dei metalli, ostacolato dalla carenza di stagno, utile per la combustione, a cui rimediò gettando nella fusione le stoviglie di casa sua, riuscì alla fine nell’impresa, dando vita ad un autentico capolavoro.
Oltre 3 metri di maestria, Perseo si erge, fiero e vittorioso, vigoroso ed imponente, sotto i suoi piedi schiaccia il corpo di Medusa, tenendo la testa in mano, per le serpi agonizzanti che ne formavano la chioma.
E’ un immagine di trionfo, l’eroe che sconfigge le forze maligne usando il potere intellettuale, un’ode ai Medici, signori di Firenze.
Lo spettacolo dell
a Loggia dei Lanzi è solo un’altra tappa delle meraviglie di una città, che è un forziere colmo di tesori. Il grande sceneggiatore, scrittore, fine critico cinematografico Ennio Flaiano scrisse:
“Molti muoiono a Firenze, non avendo potuto nascerci:”