Bologna, oltre l’individualismo

matteo lepore sindaco bologna

Intervista a Matteo Lepore, sindaco della città più progressista d’Italia.

Dopo essere stato nominato due volte assessore nelle amministrazioni guidate dal sindaco Merola, alle elezioni del 2021 la coalizione di centrosinistra candida Matteo Lepore a sindaco della città, dopo aver vinto le primarie. Vince le elezioni con il 61,9% dei voti: Lepore è il candidato più votato al primo turno dall’introduzione dell’elezione diretta del primo cittadino. Matteo Lepore ci ha raccontato perché a Bologna c’è una cultura della solidarietà molto forte, quali sono i punti di contatto con Firenze e qual è l’impegno dell’amministrazione comunale per tutelare e promuovere i diritti dei cittadini. 

Bologna è stata una delle città fulcro della Resistenza. Nel 2019 l’ANPI ha registrato il +10% di iscritti, tornando ai livelli pre-referendum costituzionale. Come mai in questa città i valori dell’antifascismo sembrano più vivi che altrove? 

Bologna è città Medaglia d’Oro della Resistenza e Medaglia d’Oro al Valor Civile dopo la strage del 2 agosto 1980. È una città che ha sempre fatto dei luoghi più importanti un memoriale, all’interno dei quali promuove incontri con le scuole. Bologna è stata ferita profondamente anche nei decenni successivi al secondo dopoguerra: per questo motivo ha attualizzato gli ideali della Resistenza, votandoli all’impegno civile. Questa è una città dove non solo ci si può dire antifascisti, ma che ancora vuole definirsi antifascista.

Bologna è fra le città con il più alto tasso di cittadinanza attiva. Ci sono 570 associazioni registrate in comune (dato del 2019, ndr). Cosa ha fatto l’amministrazione comunale per valorizzare la cittadinanza attiva?

Fra le altre cose, Bologna è stata la prima città italiana, nel 2014, a dotarsi di un regolamento per la gestione condivisa dei beni comuni. Dal regolamento sono nati i Patti di collaborazione, degli accordi condivisi tra gruppi informali, associazioni, imprese di cittadini che individuano un bene comune – materiale o immateriale – e decidono di proporre all’amministrazione un accordo per prendersene cura. Si crea così un legame di fiducia: con gli ordinari di amministrazione, si attua l’articolo 45 della Costituzione. Da allora abbiamo sottoscritto più di un migliaio di Patti con oltre 16.000 cittadini. Grazie anche a questo strumento si è rigenerato il tessuto partecipativo. 

Nel 1978 nasce a Bologna il primo movimento gay, il Circolo di Cultura Omosessuale “28 giugno”. Nel 1985 è il turno dell’Arcigay. Bologna sembra attraversata anche da un senso comune di emancipazione, oltreché di solidarietà. 

Bologna è una città che spesso viene scelta dalle persone. Abbiamo due immigrati ogni tre cittadini e un quarto della popolazione cambia ogni dieci anni. Dal dopoguerra Bologna ha generato delle aspettative. La fama di una città progressista, di sinistra, continua a essere forte perché alimentata da coloro che hanno scelto di abitarci. In molti casi qui si sono prodotte battaglie sui temi dei diritti che hanno ottenuto dei risultati a livello nazionale. 

Mi ha parlato di cultura, di partecipazione e di emancipazione. Lei pensa che ci sia un filo che collega questi aspetti di Bologna al suo essere storicamente una città “rossa”? 

Io penso che Bologna sia la città più progressista d’Italia. Progressista nell’ambito dei diritti, nell’ambito delle scoperte scientifiche, della conoscenza delle tecnologie, dell’organizzazione economica. È una città di sinistra perché la cultura comune finora è stata questa, a prescindere dal partito che la rappresenta. Bologna ha ancora tante cose da dare, perché è generativa di nuove pratiche che si affermano nei codici e nelle leggi.

A Bologna – e in modo ancor più evidente a Firenze – si assiste a un progressivo svuotamento del centro storico a favore dei turisti. Cosa sta facendo l’amministrazione per contenere questo esodo? 

Sicuramente lo spopolamento dei centri storici e la perdita del senso di comunità sono due rischi a cui sono esposte tutte le grandi città connesse alle dinamiche globali. Bologna non è un’isola. Però sappiamo affrontare a testa alta questo tema: non ci dimentichiamo che ci sono ancora 50.000 residenti nel centro storico e che la città conta l’8% di case popolari. Una città come Barcellona, che è la città faro di chi porta avanti una critica alla gentrificazione, ha il 2% di case popolari. Abbiamo creato insieme ad altri una rete di città italiane ed europee con l’obiettivo di promuovere una nuova fiscalità in materia; qualche risultato lo abbiamo portato a casa. Dobbiamo fare ancora qualcosa. Senza chiudere le porte al turismo, che a Bologna fa bene: assicura le risorse per la cultura e ci ha resi, nel tempo, più aperti e internazionali. 

Nel 2006 siete stati nominati dall’Unesco “città creativa per la musica”. Credo che a Bologna ci siano ancora spazi in cui gli artisti si possono esprimere lontano dal mainstream, nell’ambito della subcultura. È effettivamente così? 

Sono due gli aspetti che connotano Bologna come città della musica Unesco. Il primo è il patrimonio culturale: Bologna è stata una patria per la musica. Il secondo aspetto riguarda la parte indipendente e underground: attiriamo tanti giovani artisti sconosciuti. Oggi chiunque può ambire a diventare un cantante famoso, ma non so se a noi interessa produrre delle celebrità: a noi preme di più sapere se quell’humus culturale, sociale e politico della città vive e resiste. E anche la musica può essere un linguaggio che lo rappresenta. Se guardiamo ad esempio la scena hip-hop e trap, Bologna è una delle città più interessanti da osservare.

Recentemente c’è stata la sentenza di primo grado per la strage di Bologna, con la condanna all’ergastolo dell’imputato Bellini. Si sono chiusi così i conti con il passato?

No, affatto. Questa è sicuramente una sentenza storica, da consolidarsi, perché deve diventare una sentenza definitiva. Di certo è stata scritta una pagina che per noi bolognesi era chiara da tempo. Constato sempre con grande sconcerto che l’Italia non vuole fare i conti con lo stragismo connesso alla strategia della tensione e al legame con chi ha guidato lo Stato dal dopoguerra in avanti; a volte usando i terroristi di destra, a volte usando quelli di sinistra, a volte facendo accordi con la mafia. Credo che con troppa leggerezza o ipocrisia si voglia derubricare questa pagina del Novecento che invece è tutt’oggi molto importante, perché è ancora molto presente nelle istituzioni, così come nell’organizzazione della politica. Anche se oggi tutti i partiti hanno cambiato nome, non si può dire che i protagonisti della vita politica abbiano fatto altrettanto.

Cosa dovrebbe fare il Partito Democratico per rispondere all’avanzata della destra, prima nei sondaggi? 

Non bisogna dare affatto per scontato la vittoria della destra alle prossime elezioni. Penso che la maggior parte degli elettori italiani sia preoccupata dal fatto che Salvini o la Meloni possano governare questo Paese. Dobbiamo portare a votare la maggioranza delle persone che non votano. La maggior parte dei cittadini italiani vuole un governo che affronti i problemi sociali. Finché manca un’agenda politica di centro-sinistra credibile su questi temi, ci sarà molto astensionismo o comunque un voto che può cambiare da un’elezione a un’altra. Credo che il PD sia l’unico partito che può parlare ai ceti popolari, perché un po’ l’avrebbe nel suo dna. Bisogna solo scegliere questa linea politica e andare fino in fondo. 

Foto: ©Gianmarco Caroti