Nel XII anniversario della strage ferroviaria di Viareggio, abbiamo assistito all’inaugurazione di una nuova opera al parco del memoriale per le vittime di via Ponchielli.
Alle 23:48 del 29 giugno 2009, presso la stazione dei treni di Viareggio, si verificò il deragliamento di un vagone di un treno merci in transito che trasportava cisterne contenenti GPL. L’incidente, probabilmente causato dal cedimento dell’asse del carrello, innescò un’esplosione della cisterna e l’onda d’urto e le fiamme investirono l’adiacente via Ponchielli devastandola. È stato uno dei più gravi disastri ferroviari d’Italia e ha causato la morte di 32 persone e un centinaio di feriti, molte delle quali stavano dormendo nelle loro case. L’inchiesta e i processi – che hanno visto chiamati in causa gli alti vertici di Trenitalia, Ferrovie dello Stato, RFI e FS Logistica – sono durati un decennio ma la parola fine non è stata ancora scritta. A gennaio 2021 la Corte di Cassazione ha stabilito che per alcuni profili di reato si deve predisporre un nuovo processo.
A Viareggio, in attesa di giustizia, le iniziative della memoria non sono mancate. In particolare c’è il progetto Binario 10 che ha il prof. Bruno Ialuna come direttore artistico. Nel 2019, a dieci anni dalla tragedia che ha sconvolto la città, il Soroprimist International Club di Viareggio -Versilia, in collaborazione con il Comune e l’associazione Il Mondo Che Vorrei, ha promosso l’intervento di far decorare ad artisti di fama internazionale la parte del muro che divide via Ponchielli dall’ex binario 10, in seguito demolito. All’altezza del Parco della Memoria si possono ammirare le opere di street artists che i lettori di FUL conoscono bene, quali Ache77, Exit/ Enter, Blub o Miles.
Dopo la pandemia, quest’anno la celebrazione dell’anniversario della strage è tornata in presenza e sabato 3 luglio ha visto l’inaugurazione di una nuova opera. Ad arricchire Binario 10 è un murale dell’artista Mauro Pallotta – in arte MAUPAL – romano classe 1972, divenuto noto con l’opera di street art “Super Pope” del 2014. La fantasiosa rappresentazione impenitente di Papa Francesco raggiunse velocemente un successo mediatico in tutto il mondo. Nel 2016 la rinomata rivista newyorkese Artnet ha inserito MAUPAL nella classifica dei trenta street artist più influenti al mondo e oggi l’artista romano collabora ad iniziative artistiche a livello nazionale ed internazionale, con le sue opere presenti nelle gallerie e nelle fiere di tutto il mondo. Per FUL ho presenziato all’inaugurazione e ho avuto l’occasione di fare una chiacchierata con MAUPAL.
Mauro ho scoperto con curiosità che sei arrivato alla street art relativamente “tardi”, ovvero dopo aver sperimentato varie tecniche artistiche.
Sì, in effetti io nasco come aspirante artista di fine art, ho avuto una formazione “classica”, dal liceo artistico all’Accademia di Belle Arti. Sperimentavo varie tecniche pittoriche su tela, cercando di lavorare con le gallerie per vivere della mia arte. Poi arrivò l’elezione di Papa Francesco e fui subito colpito dalla semplicità di questa persona che trasmetteva un’empatia fuori dal comune.
Uno dei pochi grandi potenti del mondo che sembrava veramente dedito al prossimo – tra l’altro ho avuto la fortuna di poterlo incontrare tre volte – così decisi di fare questa goliardata di disegnarlo su carta come Superman e incollarlo su un muro nei pressi del Vaticano. Il mio Papa era un Superman atipico… La pancia, gli occhiali da vista, la sciarpa del San Lorenzo – la squadra argentina di cui è tifoso – che usciva dalla borsa valores… Doveva essere uno sberleffo e invece divenne una delle opere di street art più virali di tutti i tempi! E mi cambiò la vita, perché iniziai a ricevere commesse in continuazione, cambiando il mio approccio alla street art.
Considera che fino ad allora, era il 2014, ero proprio fuori da quel mondo. Però devo dire che in effetti è un genere che mi si addice, perché è estremamente comunicativo, anche per il mio carattere poter esprimere la comunicazione in strada funziona.
A tuo avviso la street art è un movimento che nel tempo si ricicla sempre? Voglio dire, negli anni ’70 c’era Basquiat che disegnava nella metro di New York, negli anni ’80 il successo di Keith Haring, negli anni ’90 l’esplosione del writing in Europa, nel nuovo millennio il successo di Bansky con lo stencil… Qual è la tua idea in merito?
Io credo che la street art in senso lato è sempre esistita, anche se per motivi diversi. Oggi ad esempio sono i murali che veicolano una forma di protesta sociale, magari nel Cinquecento era street art l’abbellimento della città con le fontane di marmo, o ai primi del Novecento le opere di propaganda politica. L’arte urbana esiste da sempre, l’unica cosa nuova è lo stile con cui si propone.
Noi disegniamo su un muro senza fare affresco e tra due anni magari l’opera è già sparita, quindi rappresenta bene l’epoca che stiamo vivendo fatta di rapporti veloci ed effimeri. Non solo, oggi va in parallelo con internet e ne riproduce in un certo senso l’idea di spazio democratico.
La street art si presta bene a essere veicolata via social, ma possiamo fare l’obiezione che oggi è molto legata a Instagram?
Instagram è diventato un po’ manager di tutti gli artisti! Grazie a questo social la tua immagine è diffusa in un secondo in tutto il mondo e puoi far conoscere la tua arte a un pubblico inimmaginabile prima. Non sono un tipo particolarmente tecnologico, ma bisogna prendere atto che oggi per un artista non avere Instagram è impensabile, a meno che non voglia rimanere incognito.
In merito al tuo lavoro per Binario 10, hai un ricordo del giorno quando si diffuse la notizia della strage ferroviaria di Viareggio? Quali emozioni hai provato poi a venire qui e cosa vuole rappresentare la tua opera?
Ricordo benissimo quel giorno, le notizie del Tg… Se vogliamo fare una comparazione, ho provato le stesse sensazioni di dolore e dispiacere di quando ho saputo del disastro del Ponte Morandi a Genova, anche perché poi siamo venuti a conoscenza della morte atroce di queste persone investite dall’esplosione del treno. Arrivato qui in via Ponchielli ho percepito un’atmosfera diversa da altri posti dove ho lavorato. C’è un silenzio assordante – che fa da contrasto alla vivacità di questa città di mare in piena stagione turistica – quasi rispettoso, come nei luoghi di culto.
Quando mi è stata data la possibilità di fare un mio intervento in questo parco della memoria mi sono sentito investito di una grande responsabilità. Inizialmente, a primo impatto, ti verrebbe la voglia di fare un’opera di accusa, poi subentra il ricordo delle vittime da tenere in considerazione, infine assorbi il tema e prendi la decisione.
Io mi sono detto che l’unico modo per rappresentare questa tragedia è cercare di mettersi nei panni dei sopravvissuti ed entrare empaticamente in sintonia con la loro sofferenza. I sentimenti possono essere molto forti ma quello più difficile è il perdono, così ho voluto interpretare una via d’uscita da questo dolore infinito attraverso la grande prova del perdono. La catena dell’odio viene rotta dalle pinze del perdono, era l’unica cosa che potevo fare per non sentirmi invadente.