
Waseem Abu Sal, dream on Palestine
Incontro con il fotoreporter Alessandro Stefanelli che si racconta a FUL e presenta una storia dalla Cisgiordania che è anche un sogno olimpico, quello del pugile palestinese Waseem Abu Sal. Un racconto di sport e resistenza.
Alessandro Stefanelli, classe 1982, è un fotoreporter e fotografo documentarista indipendente, collabora con il quotidiano La Stampa quando in Ucraina e con Il Manifesto quando in Palestina. Originario del Lazio, si è recentemente trasferito a vivere in Toscana, a Rignano sull’Arno. Ha una laurea in Comunicazione Audiovisiva, una in Scienze Infermieristiche, e ha studiato Direzione della Fotografia per il cinema in Spagna.
Ha lavorato nell’industria cinematografica italiana per vari anni come aiuto operatore per poi scegliere la professione di fotoreporter spinto da un crescente interesse per i conflitti, le migrazioni e le questioni sociali e ambientali. Si è occupato, tra gli altri progetti, della pandemia del Covid-19 negli ospedali di Torino, della diaspora del popolo Rohingya, della crisi del Venezuela, della guerra in Ucraina, della condizione dei beduini del Negev – una comunità ai margini discriminata da Israele – e di storie dalla Cisgiordania occupata.
Le sue fotografie sono state pubblicate a livello internazionale, tra gli altri, su The New Yorker, Bloomberg, Financial Times, The Atlantic, The Guardian, BBC, Le Figaro, The Telegraph, Der Spiegel, El Pais e in Italia su Il Corriere della Sera, La Repubblica. Per La Stampa e Il Manifesto scrive pure.

Dalla fine del 2023 ha in corso un progetto di documentazione sulla vita di due giovani pugili palestinesi in Cisgiordania; uno di loro – Waseem Abu Sal – si è qualificato per le Olimpiadi di Parigi 2024, diventando a 20 anni il primo pugile palestinese a qualificarsi per un’olimpiade nella storia sportiva della Palestina. Ma il suo sogno continua e si chiama “Los Angeles 2028”.
Alessandro, qual è il tuo approccio alla fotografia?
Come fotografo il mio approccio è incentrato sulla cattura di momenti autentici che raccontino una storia. Credo che il potere della fotografia risieda nella sua capacità di trasmettere emozioni e narrazioni complesse senza bisogno di parole, e il mio obiettivo è quello di immergere chi guarda nelle esperienze vissute dei soggetti che documento.
Che si tratti di una zona di conflitto, di documentare tradizioni culturali o di evidenziare questioni sociali, il mio approccio è di essere il più invisibile possibile, permettendo ai soggetti di mantenere la loro spontaneità. L’obiettivo non è solo quello di creare immagini esteticamente gradevoli, ma di rendere ogni fotografia una finestra su un contesto più ampio o su un avvenimento specifico.

L’illuminazione e la composizione sono essenziali, ma preferisco la luce naturale e le composizioni spontanee agli scatti perfettamente messi in scena. Ogni foto diventa il tassello di una narrazione più ampia che sensibilizza, fa riflettere e, si spera, ispiri all’azione.
Quando hai capito che fare reportage sarebbe diventata la tua professione?
Ho scattato il mio primo progetto di documentazione fotografica a Vancouver, nel 2009, mi ero trasferito in Canada dopo aver lavorato svariati anni nel settore cinematografico italiano. Lì, per un anno, ho documentato la vita di una vasta comunità di persone con problemi di dipendenza dal crack che vivevano nella zona est della città.
Downtown Eastside è il mercato della droga a cielo aperto più grande del Nord America. Parliamo di 15 anni fa. Quel progetto non ebbe grande visibilità, ero agli inizi, ma sentivo che quella era la mia strada, una strada difficile ma di grande prospettiva umana.

Ti sei occupato di vari scenari di crisi, dalla pandemia alla guerra in Ucraina, dal collasso dello stato venezuelano ai rifugiati in Asia. C’è un tratto in comune che hai riscontrato in queste storie e nella preparazione per raccontarle?
Ogni racconto, ogni latitudine, ogni individuo è una storia a sé, il tratto comune che li unisce è l’umanità, non c’è stato luogo in cui non abbia trovato persone stupefacenti che nei contesti più difficili mi hanno teso una mano, invitato nelle loro case, offerto del cibo.
E poi la sofferenza imposta dalla guerra, o dalla fame come in Venezuela, o da un genocidio come quello dei Rohingya. Quasi nessuno è artefice del proprio destino in questi contesti, molti lo subiscono e basta, soprattutto il popolo, i più umili e i più bisognosi.

Il tuo ultimo progetto a lungo termine riguarda una storia di sport e resistenza. Chi è il giovane pugile palestinese Waseem Abu Sal?
Waseem Abu Sal, ha 20 anni, è stato cresciuto nei sobborghi di Ramallah dalla nonna in una casa umile ed è entrato per la prima volta in una palestra di boxe all’età di 9 anni, diventando 11 anni dopo il primo pugile palestinese a qualificarsi per le recenti Olimpiadi parigine; gli è stata garantita la partecipazione grazie a una wild card su invito del Comitato Olimpico Internazionale. La Palestina, nonostante non sia da molti Paesi riconosciuta come Stato, è membro dell’International Olympic Committee e partecipa ai Giochi dall’edizione del 1996 a Atlanta.
Alle Olimpiadi di Parigi 2024 ha portato otto atleti, suo record storico. In questo periodo in cui la guerra a Gaza e l’intensificarsi dell’occupazione della Cisgiordania hanno messo a dura prova la popolazione civile, la storia di Waseem è un racconto di resilienza e speranza per tutti i giovani atleti palestinesi.

Declinazione di un popolo attaccato alla propria terra e ai propri valori che cerca di sopravvivere alla frammentazione del proprio territorio e attraverso lo sport prova a pensarsi e rappresentarsi come Stato. Adesso l’obiettivo di Waseem è qualificarsi per le Olimpiadi del 2028 a Los Angeles.
Che tipo di rapporto si è instaurato con Waseem e la sua comunità a Ramallah?
Waseem è un ragazzo molto giovane, con gli occhi neri e un sorriso dolce, con i suoi tratti fortemente mediterranei e il cuore caldo dei palestinesi, una persona a me molto cara. Mi ha fatto entrare in casa sua, fatto conoscere la sua nonna che l’ha cresciuto e permesso di raccontare la sua storia senza influenzarla mai.

Ci siamo conosciuti nella palestra El Barrio di Ramallah, grazie al suo coach e caro amico, Nader Jayousi, un posto dove gira tanta gente e dove c’è tanto fermento, un luogo progressista lo definirei, in un contesto molto tradizionale.
Quali sono le difficoltà per un reporter nel lavorare nei territori occupati da Israele, soprattutto in seguito agli eventi del 7 ottobre 2023?
Lavorare in Cisgiordania è difficile per definizione, si entra in un territorio controllato dall’esercito israeliano, dove la pressione dei coloni e l’espansione degli insediamenti illegali è evidente, qualsiasi contesto si vada a documentare può diventare all’improvviso un contesto di guerra.

Trovarsi in un campo profughi palestinese durante un raid israeliano può essere molto pericoloso, così come essere attaccato dai coloni mentre si documenta la vita di un pastore palestinese che porta il suo gregge al pascolo. Check points, impunità, coloni armati, disprezzo per la stampa da parte dell’esercito israeliano, difficoltà di movimento, morte e sofferenza sono tutti aspetti da prendere in considerazione quando si va nella Cisgiordania occupata.
Foto: ©Alessandro Stefanelli
Cover: Waseem Abu Sal, 20 anni, indossa un sacco di plastica per perder peso durante una sessione di allenamento.