Il fotografo Giacomo d’Orlando ha messo a fuoco possibili scenari futuri per l’ambiente a causa del cambiamento climatico e le soluzioni che comunità locali e scienziati stanno approntando per rispondere agli effetti del riscaldamento degli oceani o alle attività antropiche più intensive.
Giacomo d’Orlando è un reporter documentarista italiano attualmente al lavoro nelle Filippine. Negli ultimi anni ha vissuto in diversi Paesi tra cui Thailandia, Indonesia e Australia portando avanti un progetto a lungo termine che spiega gli effetti del cambiamento climatico sull’ecosistema marino e costiero. Il progetto ha evidenziato come le crescenti pressioni determinate dal clima e dalle attività umane stiano rimodellando il pianeta e come le società più colpite stiano reagendo alle sfide che ne segneranno il futuro. Lo scopo della sua fotografia è quello di denunciare le problematiche sociali e ambientali che il nostro mondo sta attraversando, dando alle persone che non sono in grado di vedere in prima persona i cambiamenti ambientali globali uno spunto di riflessione, sensibilizzando lo spettatore su questi importanti argomenti.
Il lavoro di d’Orlando è stato pubblicato in tutto il mondo su giornali e riviste come The Guardian, The New York Times, El Pais, BBC Science Focus, National Geographic China, Geo France, Der Spiegel, Stern, The Washington Post, Courrier International, De Volkskrant, Greenpeace e premiato da prestigiosi concorsi fotografici tra cui Picture of the Year International (2022/2023), Istanbul Photo Award (2023), BarTur Photo Award (2022), Sony World Photography Award (2022).
Il suo lavoro è stato esposto in mostre a livello internazionale a Parigi, Perpignan, Amsterdam, Londra, Venezia, Berlino, New York e Barcellona, solo per citarne alcune. Nel 2023, insieme ai colleghi reporter Alfredo Bosco e Karl Mancini, ha fondato il visual lab Ronin.
Giacomo, come ti sei approcciato alla fotografia?
Ho iniziato come autodidatta all’età di 21 anni lavorando per uno studio fotografico nella mia città natale, Verona, prima come assistente e poi come secondo fotografo, imparando le basi del mestiere. Ma dopo un periodo trascorso nel settore dell’immagine pubblicitaria e commerciale che non mi soddisfaceva, ho deciso di seguire il richiamo della passione per i viaggi e la voglia di scoprire il mondo. Così, nel 2015, mi sono trasferito in Nepal con l’appoggio di una ONG chiamata Apeiron dove ero ospite come volontario. Dato che si occupavano di violenza di genere, ho iniziato il mio primo progetto a lungo termine di fotografia documentale proprio su questa tematica.
Il destino ha voluto che mi trovassi lì durante il grande terremoto del 25 aprile 2015 e ho conosciuto alcuni dei più grandi fotografi internazionali che erano arrivati in Nepal per coprire l’accaduto, tra cui il reporter Alessio Mamo, oggi pluripremiato. Guardando le mie foto Mamo mi ha consigliato di farle vedere ai photo editor presenti al festival Visa Pour l’Image di Perpignan e così in punta dei piedi sono entrato nel mondo del fotogiornalismo. Da quel momento mi sono specializzato nella documentazione di questioni sociali e ambientali, lavorando occasionalmente anche per riviste di viaggio, che mi hanno portato a vivere in diversi Paesi.
Hai passato l’ultimo anno in Oceania, di cosa ti sei occupato nello specifico?
Nel 2023 sono tornato in Australia per il secondo capitolo del mio progetto di fotografia documentaristica chiamato Symbiosis. Il primo capitolo del progetto l’avevo svolto nel 2022 in Thailandia e Indonesia. Symbiosis è centrato sugli impatti del cambiamento climatico e dell’uomo sull’ecosistema marino e costiero, narrati attraverso gli occhi delle comunità indigene e le ricerche dei team scientifici.
Il mio scopo è aumentare la consapevolezza su questo problema, raccontando però le soluzioni positive di conservazione che sia le comunità locali che gli scienziati stanno approntando, per esempio per rispondere agli effetti del riscaldamento degli oceani o alle attività antropiche più intensive. Adesso mi trovo nelle Filippine per sviluppare il nuovo capitolo di questa narrazione che oltre il pacifico e il Sud-Est Asiatico immagino comprenderà anche il Mediterraneo e il Sud America.
C’è una certa difficoltà a far giungere all’opinione pubblica i report scientifici sulla crisi dell’ambiente. Pensi che la fotografia possa favorire la trasmissione del messaggio?
Personalmente, fin da piccolo, sono sempre stato attratto dalle foto, ricordo quelle che vedevo su National Geographic, e oggi che ho avuto modo di approcciarmi agli scienziati ho capito quanto sia difficile comprendere certi numeri se non fai parte della comunità scientifica. Così, tramite le mie foto penso di poter far uscire dal laboratorio il lavoro di queste persone che dedicano la loro vita a capire “dove abbiamo sbagliato e come possiamo risolvere i problemi dell’ambiente”.
Ma anche attirare l’attenzione di persone che altrimenti non avrebbero per indole curiosità per la ricerca scientifica. Al mio scopo è essenziale l’uso di una didascalia esaustiva per far scoprire l’argomento e magari offrire lo spunto per poi approfondire di cosa si tratta. Quando documento una ricerca chiedo sempre una review agli scienziati, perché voglio fare da tramite fra loro e il pubblico.
Stai fotografando la bellezza del nostro pianeta, hai mai pensato che le tue immagini possono essere da monito allo spettatore: a causa del cambiamento climatico tutto questo non sarà più come prima?
Sai, magari noi stessi da bambini abbiamo visto documentari su luoghi del Pianeta che oggi purtroppo non esistono più. La curiosità di visitare determinati posti o immergermi in culture indigene è stata peraltro la spinta per fare il fotografo, ma poi una volta arrivato a destinazione ho trovato luoghi già cambiati dal turismo e pensato “la Globalizzazione è arrivata prima di me!”. Questo mi rattrista, abbiamo perso la bellezza di paesaggi e culture, sostituiti dal consumismo. Le mie foto da una parte vogliono mostrare quello che potremmo perdere, ma dall’altra mostrano quello che abbiamo già perso.
Nonostante mi approcci alla fotografia documentale con positività – dal cambiamento climatico allo sviluppo industriale lungo le coste – più che immortalare una bellezza a rischio mi sono trovato a documentare l’aspetto surreale dello sfruttamento delle risorse della Terra.
Prendiamo il caso della perdita di biodiversità; ha un’influenza sulle comunità dei pescatori che fanno più fatica a pescare con conseguenze sociali a caduta. Perché queste persone potrebbero poi essere costrette a migrare oppure andare a lavorare nelle piantagioni di olio di palma, molto impattanti per l’ambiente in un circolo vizioso che si autoalimenta.
Cos’è “Ronin”?
Ronin è un progetto che insieme ai colleghi Alfredo Bosco e Karl Mancini portiamo avanti da un anno. L’idea è quella di una piattaforma dove il cuore pulsante rimane la fotografia, ma le tematiche che noi affrontiamo saranno approfondite anche con altri strumenti e spazi: dirette social, podcast, eventi e incontri. Abbiamo fondato Ronin con una comunione d’intenti, oltre a condividere una determinata sensibilità riguardo il mondo che ci circonda. Adesso è ancora in fase di “laboratorio” ma ci saranno importanti novità nel corso del 2024!
Foto di Giacomo d’Orlando
IG: @ronin_lab