Il concetto di “casa” è strettamente legato a quelli di identità, di espressione dell’identità e di appartenenza ed è un termine che è ricorso spesso nella chiacchierata su Firenze e la queerness con Luca de Santis e Astri Amari.
Luca de Santis, molisano, vive a Firenze da due anni dopo aver vissuto a Bologna, dove ha iniziato la sua attività di attivista al Cassero negli anni Novanta, a Milano e a Roma, dove invece è entrato in contatto con il Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli. Firenze lui la definisce un’eccezione, perché nonostante la sua storia molto legata alla comunità LGBTQIA+ (a Firenze, per esempio, nel 1974 è nato il primo locale gay, il Tabasco) e nonostante l’aria internazionale che si respira, manca di una presenza costante nel quotidiano. È vero che questa mancanza interessa anche altre realtà italiane, perché dopo la pandemia c’è stato l’aumento di un fenomeno che era già iniziato anni fa e che ha visto il trasferimento degli spazi della comunità dal fisico al virtuale.
Secondo lui, infatti, gli spazi virtuali in cui le nuove generazioni sono cresciute, che hanno permesso non solo un’aggregazione senza confini ma anche il riconoscimento di identità nuove, stanno mostrando la tendenza a diventare fisici, seguendo quell’esigenza di dare corpo a qualcosa che è nato nel web e che ha bisogno, comunque, di concretezza.
Anche Astri Amari, marchigiana – che ha partecipato al nostro incontro insieme alla sua compagna fiorentina Giulia – sta a Firenze da due anni e, nonostante abbia avuto spesso contatti con collettivi in giro per la penisola, ha compreso di aver bisogno di una visione più ampia dell’attivismo, con più contatto con le comunità che vivono nelle varie parti della città, convinta del bisogno di partire dal basso per organizzarsi e riunire i pezzi, insieme.
Il quadro di Firenze composto con le nostre parole mostra una città contraddittoria, che da un lato non discrimina grazie alla sua matrice sociale internazionale ma dall’altro sembra non garantire realmente sicurezza alle minoranze, come le persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+, donne o persone socializzate come donne, immigrati, disabili, ecc. Per Luca il turismo è riuscito ad alterare molto gli equilibri culturali e la percezione sociale della città: perché il centro di Firenze è caratterizzato da una mescolanza di persone da tutto il mondo e in qualche modo questo lo rassicura, gli dà la percezione di una città che accoglie. Confessa di non avere problemi a baciare il suo compagno e per lui quel bacio, come il tenersi per mano, sono sempre state un’azione politica, ormai interiorizzata.
Venendo da Milano, dove ha conosciuto persone che non davano per scontata l’eterosessualità e dove l’accoglienza per le persone LGBTQIA+ è più diffusa, ha trovato inizialmente strano che a Firenze non fosse allo stesso modo, come è strano che la città non ha un suo Pride e sembra non avere, come per esempio Bologna e il suo Cassero, una struttura fissa che dia alla comunità un contributo quotidiano della sua presenza.
Per Astri Amari la questione è un po’ diversa. In qualità di persona socializzata come donna, lei sente di essere osservata anche nei luoghi che quotidianamente si frequentano per lavoro o per spostarsi, come per esempio la tranvia. Per lei Firenze è una città che soffre molto la pressione della costante creazione di spazi destinati ai turisti e quindi a chi, nella società, risulta benestante: in questo modo le comunità che già vivono ai margini – e che per questa pressione subiscono una spinta che li costringe in limiti ancora più lontani – rischiano di essere cancellate. Le comunità non sono legate tra loro e non c’è un’effettiva integrazione per cui – sostiene anche Giulia – quando si attraversano queste cellule l’indifferenza si percepisce, e non dà modo di creare relazioni autentiche.
Quando ho chiesto che cosa significhi per loro safe space Luca ha portato una riflessione su quanto la comunità LGBTQIA+ si sia abituata a ragionare per scarsità, seguendo quella convinzione per cui gli spazi destinati alle persone queer debbano essere pochi. È per questo che, essendo limitati, si sente il bisogno di proteggerli. È vero che non si dovrebbe escludere, ma allora questa dovrebbe essere una considerazione valida per tutti gli spazi: quelli destinati unicamente alle identità marginalizzate sono necessari per far sì che queste riescano a organizzarsi, per sollevarsi dalla pressione sociale, culturale, patriarcale e maschilista a cui sono sempre sottoposte. Se tutto il mondo è escludente con loro, loro hanno bisogno di uno spazio fisico e solido che a volte può e deve essere esclusivo.
Per Astri Amari e Giulia safe space significa non sentirsi gli occhi addosso, un problema che interessa la politica identitaria che tende a chiudersi su sé stessa. Non si dovrebbe giudicare come una persona decide di vivere la sua vita ma soprattutto la militanza, perché ognuno può e deve avere il diritto di decidere come viverla, magari lottando nel quotidiano e non per forza in uno spazio definito queer. Uno spazio safe non seleziona e non esclude ma accetta e accoglie a prescindere da orientamento, identità o impiego lavorativo, un posto senza categorie ma soprattutto libero da sovrastrutture.
A Firenze sembra che ci siano tante piccole realtà che però non comunicano e questo porta a limitazioni, come se esistessero soltanto ristrette cellule di discussione dentro le quali ci si parla addosso senza cercare realmente una soluzione alla visibilità, senza trovare una via davvero alternativa ai collettivi, all’appartenenza stretta a gruppi ben specifici.
Firenze può diventare davvero casa – termine che tanto identifica il luogo d’elezione in cui costruire la propria vita – se riesce a offrire un posto politico riconoscibile a cui tutt* possano accedere per trovare ciò di cui hanno bisogno. Come le persone più anziane che non possono esprimere la loro identità perché intrappolate in contesti sociali ormai consolidati e difficili da abbandonare, le persone più giovani che subiscono discriminazioni proprio in famiglia o negli ambienti scolastici, gli stranieri che vorrebbero conoscere i modi in cui la comunità LGBTQIA+ locale vive, ma soprattutto chi vorrebbe trovare una casa e sapere che per loro, in questa città, effettivamente esiste.
Foto di Irene Montini
Le immagini che accompagnano l’articolo fanno parte del progetto fotografico “SARABAMBA” realizzato da Irene Montini (IG: @ireaw) nel marzo 2024. In foto il duo queer fiorentino SARABAMBA insieme all’artista SANTAVIOLA.
SARABAMBA: full look by Paolo Belleri;
SANTAVIOLA: full look by Matteo Carlomusto.