Firenze appare come una città frammentata e individualista, influenzata da modelli di comportamento competitivi e poco collaborativi, volti più a creare contenuti sui social che azioni vere e proprie per cambiare nel profondo la vita delle persone. Una riflessione con l’attivista Valerio Bellini e la performer drag Ava Hangar.
Il contrasto, nelle arti visive e nella fotografia, indica la differenza di luminosità, colore o tono tra gli elementi di un’immagine. Un contrasto elevato rende le differenze più marcate, le luci e le ombre creano un effetto drammatico evidenziando i dettagli di ciò che è rappresentato. La Firenze rappresentata dalle parole di Valerio Bellini e Riccardo Massidda, in arte Ava Hangar, è una città fatta di confini profondi, dove le contraddizioni e i contrasti diventano protagonisti di un racconto di identità che sembrano non parlarsi.
Valerio Bellini, originario di Livorno, si è trasferito a Firenze intorno ai venticinque anni, dopo avere insegnato danza in varie città, tappa fondamentale per la sua evoluzione personale e professionale. Firenze e i suoi spazi culturali rappresentavano qualcosa di molto diverso da quello a cui era abituato e qui, poco prima della pandemia da Covid, inizia la sua vita da attivista.
Riccardo, invece, è arrivato a Firenze in un momento di passaggio della sua vita e, oggi, sente un senso di alienazione e difficoltà nell’integrarsi in una città che percepisce esclusiva e a tratti poco accogliente, incapace di dare uno spazio che lui possa sentire suo.
Quando iniziamo a parlare della possibilità di vivere la propria queerness nella città, Valerio sottolinea come Firenze, come anche altre città, è divisa in due dimensioni: la quotidianità, caratterizzata da una relativa tranquillità purché si rimanga nei canoni socialmente accettati, e la vita all’interno della comunità LGBTQIA+, in cui comunque esistono norme non dette che determinano l’accettazione o l’esclusione.
Firenze, che sulla carta potrebbe avere tutte le qualità per essere un punto di riferimento nazionale per la vita queer, sembra che non riesca a fare questo passo, rimanendo intrappolata in un meccanismo difficile da interrompere.
Soprattutto, non è plausibile che una città con così tante realtà destinate alle comunità LGBTQIA+, realtà che spesso non collaborano, non riesca a scardinare un’impostazione limitata che diventi realmente aperta a tutte le identità che la compongono. Per Riccardo è importante viversi la propria queerness in modo personale e profondo, per lui questo concetto non passa attraverso il trucco e i colori, ma per la concezione della società e l’approccio di decostruzione continua del mondo, una visione in divenire il cui obiettivo dovrebbe essere aiutare gli altri membri della comunità a essere sé stessi.
Firenze appare come una città frammentata e individualista, influenzata dalla società della performance che promuove modelli di comportamento competitivi e poco collaborativi, volti più a creare contenuti sui social di posizionamento che azioni vere e proprie per cambiare nel profondo la vita delle persone.
L’impressione è che ci sia, a Firenze, la voglia di platinare la realtà con la carta della purezza e di dipingere una città che alla fine non esiste: invece di riuscire a unire realtà solo apparentemente differenti, ci si limita ad arredare la propria bolla in cui i nemici sono tutti quelli che non sono uguali a me. “Firenze è un carnevale di persone travestite”, dice Riccardo, e come tale avrebbe la potenzialità di accogliere il diverso senza discriminazione, potenzialità però non totalmente accolta.
C’è, nelle loro parole, un senso di delusione per le opportunità mancate, per la difficoltà di organizzare, nonostante le numerose associazioni e organizzazioni presenti, eventi significativi e continuativi, per la mancanza di spazi sicuri e inclusivi presenti in altre realtà cittadine, per l’incapacità di sostenere iniziative che vadano oltre gli entusiasmi temporanei.
Nell’affrontare la questione del “safe space” entriamo in un terreno più personale. Per entrambi al momento a Firenze non ci sono veri e propri safe space per le minoranze, esistono e sono esistiti tentativi di creare spazi safer, più sicuri, come “The Shade” (la rassegna mensile di eventi curata da Valerio e Riccardo alla Limonaia di Villa Strozzi), ma questi restano iniziative isolate e spesso non raggiungono l’efficacia sperata e voluta a causa della mancanza di un supporto più ampio e strutturato.
“The Shade”, per i creatori, è un safer space perché nel suo piccolo riesce a gestire la convivenza di diverse identità sempre con accoglienza.
In altri posti del mondo, come per esempio Berlino, Amsterdam e Londra, si è tentato di elaborare un metodo per comunicare le regole per entrare in un luogo senza che ciò venga interpretato come esclusione: le persone che non vogliono rispettare certe regole, chiaramente comunicate, semplicemente non entrano.
Il safe space viene descritto con termini come intersezionalità – che per Valerio è una parola da utilizzare per descrivere una lente di lettura, per indicare un’alleanza piuttosto che una lotta comune, per evitare che i nuclei delle diverse lotte si mescolino e facciano perdere la specificità di ogni identità –, comunità, solidarietà, rispetto, cura dell’altro senza discriminazioni. È necessario che tutti gli spazi vengano attraversati, non solo quelli protetti, per portare avanti un attivismo significativo e di impatto.
Al LUMEN di via del Guarlone, Valerio organizza i “giovedì queer”, eventi che si rivolgono non soltanto alle comunità queer ma anche famiglie, bambini, persone che non sanno che cosa succede in ambienti di questo tipo e vuole scoprire che cosa c’è dietro questo termine all’apparenza così spaventoso.
Lo spazio sicuro va al di là delle comunità LGBTQIA+, è qualcosa che nasce come esigenza da parte delle persone marginalizzate, ma dovrebbe essere esteso come concetto etico di qualsiasi luogo attraversato da corpi, di qualsiasi spazio che dovrebbe essere sicuro a prescindere da chi l’attraversa. La liberazione passa attraverso l’espressione del corpo secondo modalità proprie e sentirsi sicuri significa potere essere sé stessi.
Valerio Bellini e Riccardo Massidda sono i fondatori di Underdogs, una società benefit fondata nel 2022 che si occupa di formazione, organizzazione eventi e divulgazioni da e per le categorie marginalizzate con particolare riguardo alle persone LGBTQIA+. Underdogs ha l’obiettivo di creare e mantenere spazi sicuri e di crescita fondati su politiche di incisività e formazione. Come sede della società i due hanno scelto proprio Firenze con l’intento di attivare un dialogo esterno, attento alle tendenze e ai temi della cultura e della scena queer e a far fiorire nel territorio una realtà che si attivi su dinamiche da e per il territorio non soltanto fiorentino.
Foto di Kristinn Kis.