L’anno del fuoco segreto

L’anno del fuoco segreto

L’anno del fuoco segreto: in conversazione con Edoardo Rialti e Dario Valentini, curatori della nuova antologia di racconti, edita da Bompiani.

Il titolo è l’unione di due riferimenti apparentemente lontani: uno realista, ovvero L’anno del pensiero magico di Joan Didion, e uno fantastico, il “fuoco segreto” di cui Gandalf di Tolkien diceva di essere il servitore. “Dietro ogni storia realistica c’è una storia fantastica e allo stesso tempo dietro ogni storia fantastica c’è una storia realistica e le due si comprendono vicendevolmente come in una geometria impossibile eppure così giusta e vera” si legge nella prefazione. È per onorare questa geometria impossibile che Edoardo Rialti e Dario Valentini hanno riunito i racconti di venti autori e autrici, esponenti di generazioni e paesaggi letterari diversi, dapprima sulla rivista Nazione Indiana, adesso in un volume edito da Bompiani. Dario Valentini ha pubblicato racconti per L’Indiscreto, Minima&Moralia, Sugarpulp e altre riviste letterarie; ha tradotto Bolaño, Cortázar e Ishiguro. Il tema principale della sua narrativa, che torna nel suo contributo alla raccolta, è la musica, «Forse un’ossessione da cui non voglio scollarmi» dice lui. Edoardo Rialti è scrittore, traduttore (lavora con Mondadori, Bompiani, Adelphi), critico, saggista, insegna Letteratura e Storia del cinema. Attraversare tutte queste vite gli permette di prendere qualcosa che ama e portarlo «un passo più in là». Li ho incontrati per parlare del libro, di selve, di Firenze e di altre cose strane e segrete.

In una recente intervista uscita sul Tascabile menzionate il fatto che gli autori e le autrici dell’antologia sono stati radunati attorno al “novo sconcertante italico”, che è anche il sottotitolo del libro. Potreste riassumere ai non addetti al lavori di cosa si tratta?

ER: La nostra storia di scrittura e collaborazione creativa – di cui questo libro è un tassello – inizia a Firenze. Firenze è la casa dei miei occhi, la città dei miei primi passi. Il mio cammino si è innestato qui con quello di altre personalità che cercavano di fare cultura. D’Isa, Santoni, Magini e altri, persone che avevano già una loro specificità risalente alla vita delle riviste fiorentine, come la Rivista Mostro nomen omen di cose che sarebbero venute – o a festival gloriosamente cazzoni come Torino una sega. Poi ci fu il panel Mutazioni a Firenze Rivista e proprio lì, personalità diverse si confrontarono sullo sconfinamento di genere. Non siamo stati i primi a parlare di “sconcertante”, ma vi abbiamo inserito il “novo”, perché eravamo nella patria del dolce stil novo. È quindi un tributo a una storia molto più vasta di noi.

DV: Dico sempre che del trittico la parte che mi interessa di più è “sconcertante”. Mi fa ridere e commuovere. Mi richiama a una dimensione sonora, che pare spesso secondaria nelle storie, rispetto a quella visiva. Potrei iniziare a parlare di Thomas Mann a riguardo, ma vi risparmio. Per quanto riguarda Firenze, ha sicuramente un ruolo centrale nella mia vita di scrittore. Forse “casa non è dove sei nato ma il posto da dove non vuoi più scappare”. 

Ci sono numerosi scrittori fiorentini e toscani tra quelli scelti. Esiste secondo voi una scena fiorentina?

DV: Firenze ha una grossa scena di scrittori underground. Vengo dal Veneto, che amo, ma di cui purtroppo non si può dire la stessa cosa, salvo eccezioni virtuose. È vero che dopo la pandemia questa scena ha perso alcuni dei suoi spazi fisici, ed è anche vero che una generazione molto importante e attiva sta lasciando piano piano il testimone a una generazione – in cui mi includo – che dovrà provare il suo valore, ma quella letteraria a Firenze resta una scena forte. Lamento invece l’assenza di una scena hardcore punk potente come quella Veneta. 

ER: La scena c’è ma non va data per scontata, non c’è niente di più rischioso del feticismo su sé stessi. Tutto questo deve essere vissuto con spirito di apertura e di contaminazione. La casa non è dove ti rinchiudi ma dove ti affacci sul mondo. 

Perché creare la raccolta, dapprima su Nazione Indiana e poi il libro?   

DV: L’urgenza era quella di creare uno spazio per storie che avremmo voluto leggere e scrivere, per prima cosa. Il ciclo su Nazione Indiana è figlio di due scrittori che passavano le giornate a battere la testa contro i rispettivi testi “inclassificabili”. Ci ha mosso anche l’amore per la poesia. Io non sono un poeta, su Edoardo ho dei dubbi, ma l’intuizione che mi ha accompagnato nel curare questo libro è che in poesia non è meno fantastico John Ashbery con i suoi panini al prosciutto e le sue piante che prendono fuoco di Baudelaire o Cristina Campo. È stato importante per noi, e una grande gioia, coinvolgere delle poetesse come Matteoni o Pugno. Volevamo che questo volume contenesse romanzieri, poeti, filosofi, studiosi di genere. È un progetto trans-genere letterario, tra fantastico e realistico ma anche tra prosa e poesia. 

ER: Ho sempre amato la possibilità di creare e vivere spazi culturali in cui fosse possibile suonare la nostra musica e unirsi ad altre “band”. È un’operazione giocosa, come un reading dove si alternano autori conclamati ed esordienti. Ci piaceva vedere cosa voci diversissime avrebbero suonato sul palco di un festival “strambo”. Nel ciclo su Nazione Indiana, ogni intervento che si aggiungeva era una nuova storia al focolare, come nel Decameron.

Ho letto nell’introduzione alla raccolta su Nazione Indiana che agli autori e autrici coinvolti avete chiesto di immaginare delle fiabe “adulte, strane, senza compromessi”. Cos’è che vi ha stupito di più delle loro risposte? Avete trovato dei tratti comuni nelle loro storie? 

ER: Avevamo più o meno un’idea delle sensibilità che avremmo convocato, ma non c’era nessuna tensione precettistica a priori, né abbiamo tratto le somme. Quando abbiamo raccolto le storie ci è piaciuto l’avvicendamento, essere confermati negli immaginari di certe voci o stupirci. Non ci siamo mai interrogati previamente su delle linee che percorressero il testo, ma adesso è interessante farlo, proprio perché a posteriori. Spero di avere la possibilità di tornare a un’esperienza già fatta ravvisando tracce che non sapevamo di aver percorso.

DV: La sfida era che tutti questi racconti fossero “anomalici”. Mi ritengo soddisfatto. 

Ho notato una fascinazione per la selva che non a caso è all’origine di una delle storie più strane mai state scritte, la Divina Commedia. Edoardo, nel tuo ultimo pezzo su Il Foglio, hai parlato della selva dantesca come qualcosa di ancestrale nella produzione weird dei secoli a venire. Mi è sembrata ricorrente la dimensione del villaggio. Insomma, ho notato un richiamo al Medioevo, tipico del genere fantastico, ma potremmo anche andare oltre e vederci qualcosa di più. 

ER: Una delle cose che attendo di più per il libro è questo tipo di restituzione, e te ne sono grato. Il mondo vegetale che insidia l’agglomerato umano, qualcosa da cui veniamo o qualcosa che si riprende uno spazio, ha un’applicabilità facile per alcune delle sfide immaginative, scientifiche e sociali del nostro tempo. C’è poi una declinazione facile del far coincidere lo strano con alcuni elementi del fantastico o dell’orrore di matrice lovecraftiana, che ci sono e che non vanno tralasciati; ma la cosa più importante è che la selva è da sempre il luogo dello sconfinamento, un’immagine del caos originario dove coesistono tutte le possibilità, è il luogo dei cammini iniziatici e di tutte le fiabe, come diceva Calvino: “il catalogo dei destini possibili”. La grande esperienza umana e narrativa, è sempre un’esperienza di transizione e sconfinamento. 

DV: La selva per me è un’immagine dell’inconscio, che emerge in questa mappatura di ossessioni, visioni e deliri di scrittori contemporanei.

Come da introduzione, ognuno è libero di attribuire a questo “fuoco segreto” il senso che preferisce. In quanto scrittori, critici e adesso curatori, cos’è per voi il fuoco segreto? 

DV: Risposta forse banale ma vera… Il fuoco è quello che ti fa scrivere, che ti esce dal petto e non puoi placare. È il raccontare delle storie. Io sono fedele per prima cosa ai miei personaggi, non in senso psicotico, ma a un certo punto acquistano una dignità tale ai miei occhi che sento una responsabilità, come se fossero dei figli, e questo mi infiamma e mi commuove. Mi interessa la verità e non la verosimiglianza. E questa verità si fa col fuoco, e nel fuoco.

ER: Io immagino un fuoco lungo la spiaggia, un cielo grigio, e tu sei lì che tendi le mani verso questo fuoco, e ci sono delle figure che emergono dalla nebbia, e tendono le mani a loro volta e parlano. E questi sono i nostri personaggi e le storie che amiamo perché creiamo, qualunque cosa voglia dire visto che “inventare” (dal lat *inventare, intens. di invenire) vuol dire “trovare”, ed è così strano e così bello che noi si debba qualcosa a dei fantasmi che non sapremo mai se sono dentro o fuori di noi. 

Qual è il vostro bar letterario preferito a Firenze? 

(Ridiamo)

DV: Non vorremmo dirlo perché siamo nemici della gentrificazione culturale ma sicuramente tante delle nostre storie sono nate a Libri Liberi. Anche L’anno del fuoco segreto! E il tuo qual è?

I peggiori bar sport. Ovunque ci sia un tavolino.

Illustrazioni di Francesco D’Isa