La parola agli ospiti e agli operatori dell’Associazione Progetto “Arcobaleno”, perno di Firenze per il lavoro sulle situazioni di marginalità.
Attraversi piazza Tasso, imbocchi via del Leone e dopo pochi metri, al numero 9, c’è un grande edificio bianco. A dispetto dell’esterno, dentro vi sono tante storie variopinte – proprio come un arcobaleno – che camminano insieme a quelli che inizialmente chiamavo utenti, ma che ben presto ho imparato a chiamare ospiti. Già, ospiti. La parola esprime bene il concetto di transitorietà associato a ciascuna delle persone che frequentano la struttura, soltanto di giorno o anche la notte.
Qui si lavora per assicurare a ognuno di loro un futuro migliore. In moltissimi casi, significa anzitutto liberarsi dalle dipendenze. Così R., nato ad Avellino e trasferitosi a Firenze, sta compiendo un percorso volto ad affrancarsi dal suo passato di detenuto. «Sono entrato nel progetto Arcobaleno durante la pandemia. Lavoravo senza contratto per un ristorante, prendevo un buono stipendio. Con l’arrivo del Covid-19 ho perso il lavoro, non mi sono più potuto permettere la casa e, soprattutto, ho perso mia moglie.»
Ha vissuto per strada, per quattro giorni non ha mangiato. Deve tutto al suo assistente sociale, Lorenzo. Ho chiesto a R. come si concretizzino le attenzioni che gli operatori hanno nei suoi confronti: «Con il dialogo. Quando parliamo mi sento ascoltato e compreso. Mi sento una persona, non un invisibile. Non potrò mai dimenticare Via del Leone 9».
In piena pandemia anche C. ha bussato alla porta dell’Associazione Progetto Arcobaleno. «Io ho fatto il libraio per più di vent’anni, a Firenze, in via Martelli, alla Libreria Giorni. Poi c’è stata la crisi e la riduzione del personale: sono rimasto senza lavoro. Era il 2010.»
C. mi ha raccontato della difficoltà di trovare un’altra occupazione per un over 50 come lui: «Non sono riuscito a trovarne uno nuovo. Ho venduta la casa e sono andato in affitto. Poi quando i soldi della casa sono finiti ho avuto un momento di debolezza in cui ho pensato di farla finita». Anche nel suo caso è sTato decisivo il contatto con l’assistente sociale del Comune di Firenze che lo ha introdotto, a inizio settembre 2021, nel progetto Arcobaleno. «Sono troppo giovane per andare in pensione, ma troppo vecchio per trovare un altro lavoro» conclude.
Anche S. per alcuni giorni non ha avuto la possibilità di mangiare. Dopo una separazione molto conflittuale ha perso il lavoro da camionista. Dalla fine dell’estate del 2021 è ospite dell’Arcobaleno, solo a pranzo. Inizialmente nei giorni feriali, poi anche il sabato e la domenica. Vorrebbe tornare ad essere totalmente indipendente, con un nuovo lavoro e una nuova sistemazione. Al momento, S. vive con P., altro ospite arrivato in via del Leone 9 perché ha avuto una disgrazia: «Mi sono laureato in medicina, ho fatto tre anni di specializzazione in odontoiatria e ho esercitato la professione di dentista per ventisei anni. A cinquantadue anni è scoppiato il mio disturbo bipolare. Per cercare di vincere quell’angoscia che avevo addosso sono scivolato nel bere. Mi sono separato dopo ventisei anni di matrimonio. Hanno risolto il mio problema dandomi il litio e dei farmaci antipsicotici.» La sua gioia più grande sono i due nipoti, che spera di veder crescere più a lungo possibile.
Tutti e quattro hanno parole piene di affetto per gli operatori della struttura, così centrali all’interno delle loro storie. Anna P. è presidentessa ed educatrice dell’Associazione Progetto Arcobaleno; ha deciso di dedicarsi alle situazioni di marginalità dopo un’esperienza nella periferia brasiliana. Per Anna non esiste un modo di vivere uguale ad un altro. «I marginali sono tutti diversi, come la gente comune. Ogni persona accolta viene definita con un target, di solito legato al suo passato – che sia provenienza, vissuto, salute; e quindi straniero, tossicodipendente, malato psichico –, ma nessuno di questi definisce completamente l’identità della persona.»
Anna S. è un’operatrice che da 15 anni lavora nel sociale. La bellezza della sua professione risiede nel contatto con le persone. La gratificazione più grande? «Quando si riesce a fare qualcosa per gli ospiti, per le persone che hanno bisogno di sostegno. Vedo nei loro occhi tanta serenità che mi stimola ancora di più a dare loro una mano. È uno scambio: dare qualcosa a loro e ricevere forza ed energia per aiutarli sempre meglio.»
Beatrice, invece, fa parte dell’Associazione Progetto Arcobaleno come volontaria del Servizio Civile. «Il volontariato restituisce tanto di quello che si fa per gli altri. Si impara a sviluppare empatia e ad aprire molto la mente ad altre prospettive; si riesce a capire che prima di essere un clochard, quell’uomo è una persona. Ed è una preziosa ricompensa.»
Anche per Iuri questo lavoro è in linea con la sua filosofia di vita. «Il dolore degli altri è anche tuo. Ignorarlo è relegarsi a una vita egoica. Sostenere le persone perché escano dalla gogna dei bisogni aiuta in primis te stesso a riconoscere il pericolo e a evitare la spirale che si genera nelle sue vicinanze. La relazione educativa prevede che con le emozioni si arrivi a una conoscenza dell’altro che spieghi ciò che l’ha portato a non essere più padrone di sé stesso e a vivere in balia dei bisogni.»
Fra operatori e ospiti, le regole del gioco sono stabilite dalle istituzioni. Quest’ultime, secondo Anna P., dovrebbero strutturare meglio i percorsi di aiuto per le persone fragili. I cittadini a rischio marginalità sono molti e le cadute possono essere dovute a vari fattori. «Quando una persona esce dalla sfera sociale e cade nella marginalità, il problema principale è quello dell’assenza di una rete umana, e quasi sempre il tessuto di relazioni sociali non esisteva neanche prima. Le istituzioni, quindi, dovrebbero insistere su questo aspetto, prendere coscienza del fatto che esistono ancora tabù che rendono marginali chi li vive, come la dipendenza da sostanze o da psicofarmaci, l’omosessualità, la provenienza da un altro paese, la condizione di povertà economica. Ci vorrebbe un lavoro di educazione: continueremmo ad avere persone fragili – come siamo potenzialmente tutti noi – ma meno marginalizzati.»
Anche Iuri cambierebbe il modo in cui lo Stato italiano gestisce le marginalità. «Basterebbe mettere in pratica gli articoli 3 e 4 della Costituzione: la garanzia della pari dignità sociale e del diritto al lavoro per tutti. Lo Stato dovrebbe iniziare a considerare le marginalità come una ricchezza e non come qualcosa da nascondere sotto il tappeto di una ipocrita società consumistica, da cui sono esclusi tutti quelli che non possono acquistare abbastanza. Aveva ragione Bertolt Brecht quando diceva che la società la si giudica da come tratta gli ultimi».
A Francesca e Elena, per aver fatto della ribellione una necessità inderogabile.
Foto di Alessio Chao