Betty Soldi – calligrafa, designer e pensatrice creativa – ci ricorda perché è essenziale preservare la scrittura a mano, cosa c’è dietro e perché può essere considerata la matrice di un modo di vivere diverso, incentrato sull’istinto e sul lasciarsi andare.
Impariamo a scrivere a mano da piccoli, sui banchi di scuola, e poi dimentichiamo l’importanza di quel gesto, ripetendolo in maniera automatica. Anzi, nell’epoca della tecnologia lo pratichiamo sempre meno, considerandolo antiquato e inutile. Abbiamo dimenticato la meraviglia di creare qualcosa con le nostre mani, trasformando i pensieri in azioni e poi in inchiostro su carta, e abbiamo sostituito totalmente i ritmi tipicamente umani con la velocità delle macchine, dimenticandoci i benefici ad essi connessi. Betty Soldi, invece, lavora proprio con le parole scritte e ci ha raccontato cosa queste significano per lei.
Come nasce la tua passione per la calligrafia?
Tutto è connesso alla storia della mia famiglia che ormai da centocinquant’anni si occupa di fuochi d’artificio a Firenze. Fin da piccola ho avuto a che fare con la materia: la polvere nera e argento, la carta e lo spago. Questi elementi creano una magia solo dopo l’accensione. Così come i fuochi generano meraviglia nello spettatore io ho cercato i miei strumenti per suscitare questo sentimento incredibile: penna e inchiostro. Ogni persona ha bisogno di accendersi e lasciarsi ispirare, io per farlo utilizzo la scrittura a mano. La passione per la calligrafia è sempre stata nelle mie vene, si è manifestata per la prima volta a Londra, dove mi sono trasferita a sette anni con la mia famiglia. Non conoscevo l’inglese e la lavagna nera dove la maestra scriveva parole bianche suscitava in me un’emozione familiare, proprio come i fuochi. Tornata in Italia ho partecipato a un corso di design presso lo studio di arte e restauro di mio zio, a Palazzo Spinelli. Tutti sapevano disegnare, io no e ho iniziato a farlo con le parole, riprendendo quella che poi ho scoperto essere l’antica arte dei calligrammi.
Alla professione di calligrafa hai associato quella di designer, com’è successo?
Tornata a Londra ho frequentato un corso di Graphic Design e Visual Communication. L’insegnante sosteneva che per riuscire a raggiungere l’armonia era necessario conoscere da dove si viene: solo onorando il passato è possibile evolvere e rompere gli schemi. In seguito all’esercizio di pratiche tradizionali, la docente forniva a me e ai miei compagni diversi spunti per esprimerci. Dopo questo corso ho iniziato a collaborare con brand di lusso, aiutandoli a comprendere come personalizzare i loro prodotti. Non conta solo il nome, ma anche – e soprattutto – comunicare qualcosa che si rivolga direttamente alle persone affezionate al marchio, toccando valori ed emozioni per loro importanti attraverso i prodotti. L’impostazione – solitamente corporate – dei grandi brand tende a perdere il lato creativo e umano del lavoro ed è proprio per ritrovarlo che le aziende chiedono la mia collaborazione.
Hai coniato il termine “Inksperiences” per i tuoi corsi, come mai hai sentito questa necessità?
In Italia quando si parla di corsi di calligrafia si attira un certo tipo di pubblico che ha una specifica aspettativa: quella di imparare delle tecniche di scrittura tradizionali. Queste esperienze insegnano a fare in un certo modo le cose e chi partecipa finisce con il pensare che questo sia l’unico, allenandosi per una pratica perfetta proprio perché si è giudicati sulla base di regole e schemi precisi. Io volevo allontanarmi del tutto da questa tipologia di corsi e così ho inventato un termine che richiamasse tutto quello che c’è dietro alla scrittura a mano: lasciarsi ispirare e quindi lasciarsi andare. Come spiego nel mio libro Inkspired, edito da Guido Tommasi, le esperienze che propongo prendono avvio dalle emozioni e dalle sensazioni che ti regala la scrittura. Si attiva un processo di scoperta di sé, di riflessione e ascolto. Chi partecipa inizialmente occupa poco spazio sul foglio, poi arriva a scrivere grande, a parlare e urlare sulla carta.
In molti sostengono che la scrittura a mano sia superata rispetto alle moderne tecnologie. Tu cosa ne pensi?
Moderno e antico non sono in opposizione, convivono piuttosto, ed è importante imparare ad utilizzare entrambi. Io stessa nel mio lavoro unisco al moderno design la calligrafia antica quanto la storia dell’uomo. La mia penna preferita non è una Montblanc nuova ma una stilografica vintage che ha già scritto e raccontato storie e che sa già come si fa. Sono io ad utilizzare in maniera nuova questi strumenti ammorbiditi dal tempo. Scrivere a mano è bello perché permette di tornare alle origini recuperando un’azione tanto semplice quanto dimenticata. Un’attività primordiale che fa affiorare ciò che abbiamo dentro rendendolo tangibile, che ci aiuta ad ascoltare noi stessi e quindi a capirci. La scrittura a mano riguarda il sentire: si scrive al livello del cuore che si connette con la testa e con la mano.
Cosa pensi possa fare la calligrafia per le persone?
La calligrafia è uno scambio, apre la mente aiutando a comprendere che le cose non sono in un modo solo. Si può scrivere su una finestra, su uno specchio, mettersi alla prova compiendo diversamente azioni che ormai abbiamo acquisito in automatico in un dato modo. Penso che la funzione della scrittura a mano sia quella di aiutare a recuperare un modo di fare le cose che sia umano, soffermandoci su ciò che diamo per scontato e notando ciò che prima non vedevamo. Durante la pandemia ho tenuto dei corsi a dei professionisti londinesi che lavorando in smart working avevano bisogno di nuovi stimoli. Affrontando tematiche lontane dalle loro occupazioni – come la poesia e la calligrafia, appunto – li ho spinti a comprendere l’importanza di sviluppare una modalità di lavoro più domestica, circondandosi delle cose che amano. Sentirsi a proprio agio sul luogo di lavoro è fondamentale così come aprirsi a nuovi modi di fare le cose andando oltre la loro iniziale impostazione e superando la mentalità ad esse connessa.
Possiamo dire, quindi, che il filo conduttore di tutto il tuo lavoro è la creatività. Cosa significa per te e come consigli di recuperarla?
Nella nostra società la creatività è considerata un hobby, un passatempo alternativo alla quotidianità. In realtà essa è proprio la polvere magica che apre a nuove prospettive. In inglese si dice “it’s not what you look at but what you see”. Possiamo guardare tutti la stessa cosa ma è come la vediamo che fa la differenza. Penso che la chiave per recuperare la creatività sia proprio coltivarsi perché è qualcosa che ci portiamo sempre dietro, un modo di vivere le cose. Si dice che chi getta semi al vento farà fiorire il cielo. Io cerco di fare proprio questo: lasciare delle tracce che spingono ad abbandonare i pesi che tengono l’anima ancorata al suolo, così da aprire la nostra valigia interiore liberandoci di limiti e dolori. Ed è così che la penna si trasforma in una bacchetta magica in grado di aprire i nostri occhi su quanto sia bello essere umani e su quanto sia importante coltivare questa essenza perché è quella che ci permette di generare meraviglie.
Foto di Beatrice Angelini, Sejla Ljubovic, Kathy Miller, Maria Riazanova