Sollicciano, morire di carcere
Sovraffollamento, degrado, disperazione. Il carcere è davvero rieducazione o è solo una “discarica sociale”? Ne parliamo con Fatima Ben Hijji – presidente dell’Associazione Pantagruel, che da 25 anni aiuta i detenuti di Sollicciano – e con Vincenzo Russo – fondatore di Casa Caciolle a Firenze, in cui vivono in un’ottica comunitaria detenuti in pene alternative.
Il 2024 si è concluso con 54 casi di suicidio nelle carceri italiane: sono i numeri di un sistema al collasso. Ma la situazione nel 2025 non sembra migliorare. Soltanto dall’inizio dell’anno ci sono stati altri 20 suicidi, di cui un paio a Sollicciano, il carcere fiorentino di cui si sta recentemente discutendo su un possibile abbattimento. Salem Ibrahim Khaled, originario dell’Egitto, avrebbe compiuto 26 anni dopo qualche giorno, ma si è tolto la vita impiccandosi nella sezione di accoglienza. Poi un altro uomo, un 39enne romeno, appena trasferito dall’Istituto di Siena, ha fatto lo stesso nel bagno della sua cella. A queste due morti c’è da aggiungere quella di un operatore. Perché se i detenuti, che affollano uno dei carceri peggiori del sistema penitenziario italiano, hanno perso ogni speranza, c’è da dire che non se la passano bene nemmeno gli agenti di polizia penitenziaria, vittime anch’essi di un sistema perpetuato nella sostanziale indifferenza della politica di maggioranza, costretti a vivere, proprio come i detenuti, in ambienti freddi e degradanti. Per fare un esempio, solo a gennaio, per un guasto idraulico, circa 300 persone tra agenti penitenziari e lavoratori che vivono nella caserma a fianco del carcere fiorentino, sono stati giorni senza riscaldamento e acqua calda.
Morire di carcere quindi si può, eccome. Per questo FUL Magazine ha deciso di parlare della situazione di Sollicciano con Fatima Ben Hijji, presidente dell’Associazione per i diritti dei detenuti Pantagruel, e con Vincenzo Russo, ex cappellano del carcere di Firenze per 20 anni e fondatore di Casa Caciolle, un luogo di accoglienza abitativa e di socialità, in cui vivono detenuti in pene alternative.

«La nostra attività principale all’interno di Sollicciano è il colloquio che ogni giorno, dal lunedì al sabato, i nostri volontari intrattengono con i detenuti», ci racconta Fatima Ben Hijji. «I colloqui servono per capire le situazioni, per offrire un sostegno morale. Si tratta spesso di persone sole che hanno bisogno di fare due chiacchiere con qualcuno. Il colloquio è un punto di partenza fondamentale: parlando con il detenuto capisci la sua storia, come si sente, quali sono le sue necessità. Cerchiamo di informarli su quali sono i loro diritti, di fornirgli gli strumenti necessari anche dal punto di vista burocratico, li supportiamo nelle varie procedure mediche e li aiutiamo a mettersi in contatto con i parenti o con gli avvocati. Sembrano informazioni banali, ma molti detenuti non parlano italiano o sono addirittura analfabeti nella loro lingua d’origine. Per questo è importante aiutarli in tutte queste piccole, ma insormontabili, dinamiche che altrimenti rischierebbero di creare ancor di più una situazione di emarginazione. In alcuni casi sono gli stessi detenuti a chiedere un colloquio con noi, altre volte ci vengono segnalate le situazioni più critiche dagli agenti di polizia penitenziaria. Poi, insieme all’Associazione AVP, portiamo avanti il Progetto Francesco, fornendo vestiti a chi ne ha bisogno. Distribuiamo anche occhiali da vista – perché la prima cosa che i detenuti perdono in carcere è la vista, avendo una prospettiva ristretta ed essendo sottoposti tutti i giorni a luce artificiale. Nella sezione femminile portiamo avanti un progetto di cucito su bambole e abbiamo anche due asinelle che vengono accudite: prendersi cura di un altro essere vivente è per loro molto terapeutico.»
L’Associazione Pantagruel è attiva da 25 anni, ma quando chiedo a Fatima cosa è cambiato a Sollicciano in tutto questo tempo, la sua risposta è secca: «Assolutamente niente. È avvilente. Io vedo entrare e uscire dal carcere gli stessi detenuti, anche perché si tratta perlopiù di reati minori, compiuti da persone che non hanno documenti né permesso di soggiorno, quegli stessi invisibili che affollano la città e di cui lo Stato non si occupa. Se un ragazzo entra a Sollicciano, fa un percorso di formazione, magari gli viene proposto di seguire un corso professionalizzante, la scuola di italiano, ma quando esce cosa lo aspetta? Non a caso i suicidi avvengono spesso a fine pena, perché quando il detenuto viene rilasciato la prima domanda che si pone è: “Adesso dove vado?”. E si ritrova a fare quello che faceva prima. Senza documenti non può cercare un lavoro, non può trovare una casa… Non ha nulla.»
Anche nel momento del decesso dei detenuti, è complicato provvedere al rimpatrio della salma, perché molti non possiedono documenti. Le autorità competenti mandano le impronte digitali ai consolati, ma questi non rispondono mai. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, a fine ottobre 2024, Sollicciano ospitava 531 detenuti, 34 in più rispetto alla capienza massima di 497. Ma molti posti letto sono inagibili, e quindi la capienza effettiva è ancora minore. La struttura del carcere – costruito nel 1983 – è inadeguata, e la situazione igienico-sanitaria è notevolmente peggiorata: cimici, insetti nei muri e nei letti.
«Dentro piove, fa freddo, sei solo», mi spiega Fatima. «Anche io tutte le volte che entro a Sollicciano devo mettermi gli scarponi, perché quando piove ci sono pozze d’acqua per terra.»
Per via di questa situazione indecorosa, ad alcuni detenuti sono stati riconosciuti sconti di pena a causa della violazione dell’Articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti.

Il tema della salute mentale in carcere è un altro aspetto cruciale, mi spiega Fatima. Non si tratta però, mi fa notare, di parlare di cure per la salute mentale in carcere, quanto che un carcere non può essere in alcun modo un luogo adatto a persone che presentano fragilità psichiche, tanto meno un contesto in cui ricevere cure psichiatriche. «A Sollicciano», riprende la presidente di Pantagruel, vi è l’unico ATSM (Articolazioni per il Trattamento della Salute Mentale; uno per regione, struttura volta ad accogliere detenuti con patologia psichiatrica, per un totale di 300 posti nazionali) della Toscana: ovviamente i posti sono pochissimi per i numeri che ci sono, e l’organizzazione è inadeguata per affrontare la situazione, vi è un continuo rimbalzo di responsabilità. Non contando poi che tra le mura degli istituti di pena, Sollicciano compreso, non vi è solo la patologia psichiatrica ufficialmente diagnosticata, ma anche una diffusa sofferenza psicologica che ha a che fare con i vissuti difficili e con le condizioni drammatiche nelle quali i detenuti ogni giorno vivono. «“Qua si muore o si diventa pazzi”, mi ha detto un giorno un detenuto.»
Per troppe persone il peso da sopportare, le condizioni inaccettabili di vita, il trattamento inumano ricevuto, sono tali che la morte appare preferibile, se nemmeno fuori esiste alcuna prospettiva di un futuro. Non è quindi un caso se a Sollicciano, soltanto nel periodo compreso tra gennaio e luglio 2024, ci sono stati 35 tentativi di suicidio, 215 atti di autolesionismo, 80 aggressioni al personale e 17 proteste.
«Così com’è, il carcere non serve a nulla. Se servisse davvero, sarebbe un luogo di rieducazione, ma questo non accade. Il carcere è diventato solo una discarica sociale. Ma è anche il carcere stesso ad avere pochi strumenti: a Sollicciano non c’è un mediatore di lingua fissa (e Sollicciano è il carcere con la quota di stranieri più alta d’Italia: il 64% del totale, ndr), non c’è collaborazione tra psichiatria e SERD, gli agenti di polizia penitenziaria non sono formati per questa situazione… Ci dovrebbero essere più case di accoglienza, più messe alla prova. Nei miei 12 anni da volontaria a Sollicciano ho incontrato solo disperati, individui fragili che hanno avuto problemi di tossicodipendenza, persone che poi, in carcere, hanno perso la testa. Ci vorrebbero più Casa Caciolle.»
Anche Vincenzo Russo, responsabile e fondatore di Casa Caciolle a Firenze, conferma le criticità di Sollicciano. Dal carcere afflittivo, come strumento di chiusura e vendetta, emerge dunque la necessità di pensare a un progetto di carcere aperto, orientato alla vita, al percorso rieducativo. «Oggi chi entra a Sollicciano non intravede certezze sul dopo, non è guidato e stimolato verso un percorso di uscita, che appare lontana, inimmaginabile o alla quale si giunge del tutto impreparati, senza poter contare su un fuori che accoglie. Quello che serve è un progetto di cambiamento.»

Casa Caciolle, concepita per desiderio di Vincenzo Russo e grazie al sostegno di don Corso Guicciardini, è protagonista di questo cambiamento: si tratta di una casa (all’interno di una villa settecentesca in zona Novoli) che accoglie detenuti in pene alternative. Nata dalla volontà di offrire un percorso di vera ricostruzione della persona per il suo ritorno alla vita sociale, offre a ciascuno dei suoi ospiti la possibilità di uscire da una dimensione di repressione e isolamento per entrare in un’ottica di inclusione, di casa appunto.
«All’interno della comunità ognuno si rende utile per la vita comune», mi racconta Vincenzo, «e vi è anche la possibilità di svolgere un servizio verso altre persone che vivono il disagio, ad esempio attraverso lo sporzionamento di pasti per famiglie bisognose. La nostra piccola comunità consente a ciascuno di riappropriarsi della capacità di relazione, di vivere la socialità, di recuperare la fiducia in sé stesso ricevendone ed esercitandosi a darla. Ma è anche uno spazio nel quale vivere la relazione con il territorio: si fa cultura, organizziamo eventi, mostre, convegni, seminari, spettacoli musicali e teatrali, e molto altro. È occasione d’incontro e conoscenza reciproca con chi vive il territorio, per crescere insieme, abbattendo gli ostacoli del pregiudizio e dell’indifferenza.»
Vincenzo mi spiega come Casa Caciolle offra un’alternativa concreta al carcere, basata sulla responsabilità e costruzione di una nuova identità. Ma non è facile lavorare con chi arriva da anni di isolamento e marginalità, soprattutto nei casi in cui gli anni di detenzione sono stati tanti. Le persone che giungono a Casa Caciolle portano con loro un grande senso di disorientamento. Intorno a loro c’è un mondo per cui sono impreparati, e si sentono fuori posto.
«In carcere queste persone hanno disimparato a vivere, a pensare positivamente, sono stati annullati, completamente deresponsabilizzati, inebetiti. Hanno accumulato paura, rabbia, diffidenza. La cosa che li aiuta, oltre alla dimensione comunitaria della casa che li accoglie, è il confronto con la realtà esterna, con la quale sono spronati a dialogare. Non sono più isolati ma fanno parte di un territorio, nel quale dovranno portare il loro contributo.»
Quello che emerge e colpisce dall’esperienza di Casa Caciolle è che, come mi spiega Vincenzo, «in molti casi le persone ricevono per la prima volta ciò che la vita, fino a quel momento, non ha offerto loro. Casa, comunità, familiare, servizi, responsabilità, formazione e lavoro: per molti quella è una prima volta per tutto questo. Ciò deve farci riflettere, il problema non è solo nella singola persona ma ancor di più fuori di essa, nel contesto in cui vive. Lì, più che altrove, nasce il reato, nasce il carcere, nell’assenza di opportunità e relazioni, nella povertà e nell’abbandono.»
Nel momento in cui scriviamo, a Sollicciano non c’è ancora una direzione stabile: dopo tre anni di insediamento la direttrice Antonella Tuoni non è stata riconfermata ed è stata spostata ad Arezzo, comunicazione arrivata tramite email a pochi giorni dalla scadenza del suo mandato, il 2 febbraio 2025. A fronte di una situazione che si fa sempre più drammatica, quello che è certo è che, prima di avere una nuova direzione a Sollicciano, passeranno diversi mesi. Nel frattempo la reggenza è stata affidata a Giuseppe Renna, attuale direttore del carcere di Livorno, che potrà essere a Sollicciano solo una volta a settimana. Difficile credere che una persona possa risolvere tutto. Quello che è certo, sottolinea giustamente Vincenzo Russo, è che «è lo Stato dovrebbe, anzi, deve prendersi cura delle persone a lui affidate, non farle ammalare, non farle morire».