“Dal carcere”: uno spettacolo della Compagnia di Sollicciano.

FUORI LE MURA STA IL BENE, DENTRO LE MURA STA IL MALE?
Il 14 Marzo è andato in scena, presso la Casa circondariale di Sollicciano, uno spettacolo che vedeva come protagonisti i detenuti, diretti dalla regista Elisa Taddei, coordinati da Francesco Givone e guidati dalla voce off di Oscar de Summa.

 
Il progetto “Teatro a Sollicciano”, accolto dalla Direzione del Carcere di Firenze, nasce nell’ottobre del 2004 e viene successivamente approvato dal Coordinamento Teatro e Carcere, promosso dalla Regione Toscana. Da allora, la compagnia di attori detenuti ha prodotto ogni anno uno spettacolo nuovo. A partire dal 2005, questo progetto viene sostenuto dalla Fondazione Carlo Marchi, che opera “per la diffusione della cultura e del civismo in Italia ” e dal Comune di Scandicci.

Fino ad oggi la Compagnia di Sollicciano ha realizzato quindici spettacoli, risultato di percorsi annuali di lavoro, e ad essa hanno partecipato più di duecentosettanta detenuti tra attori, scenografi, assistenti al suono e alle luci. Negli ultimi anni la compagnia è riuscita ad ottenere i permessi per uscire e ha potuto presentare i suoi lavori in teatri come il Ridotto del Teatro Comunale, il Teatro del Cestello, il Teatro Everest, il Teatro Studio di Scandicci.
Quest’anno si è scelto proprio il carcere. Ma perchè? La parola agli organizzatori:
“Non lo abbiamo mai affrontato direttamente; ci siamo allineati senza volere con quello che sta accadendo nel nostro paese: la questione “carcere” rimane un argomento di cui si parla ancora troppo poco. Questo lavoro è dunque anch’esso figlio di una necessità; raccontare a chi sta fuori come funziona o non funziona il carcere in Italia; cosa vuol dire vivere in un luogo che di fatto a tutt’oggi sembra avere difficoltà a rispettare la sua funzione rieducativa, raccontandolo attraverso lo sguardo di chi è detenuto, di chi, di questo luogo, è il protagonista principale.” 

In effetti, lo spettacolo riesce totalmente nell’intento. Non era facile. Non era facile non scadere nel moralismo, nel ‘buonismo per una sera’, nel dramma, nella spettacolarizzazione tragica di vite.
Non era facile mettere insieme un gruppo coeso di attori, che in comune non hanno nemmeno la lingua, l’istruzione, l’etnia ma solo un’esperienza: la detenzione.
Non era facile emozionare, coinvolgere e far partecipare un intero teatro, pieno di gente altrettanto diversa, con pochi mezzi scenici e un grande ostacolo da superare: la separazione incolmabile tra quelli che, alla fine, escono e tornano a casa e quelli che, invece, rientrano in cella. Tra ‘chi sta fuori’ e ‘chi sta dentro’ . Dove il carcere separa, distingue ed emargina, il teatro, in quanto metarealtà che sovrasta e annulla tempo e spazio, unisce. Anche solo per poche ore.
Si impara molto da questo spettacolo. Si entra nella quotidianità della reclusione, fatte di ore interminabili, appuntamenti mancati, lunghe attese di metaforici Godot, diversi nel nome ma non nella sostanza. Si entra in una dimensione rovesciata in cui il tempo è sempre troppo e lo spazio sempre troppo poco. Si impara a ‘panneggiare’ (sventolare un pezzo di stoffa) insieme ai detenuti: ogni comunità ha le sue forme di comunicazione e questa è la loro.

Si ride alle battute, ci si commuove ai ricordi, ma soprattutto si riflette. Foucault, parlando del carcere, lo definisce come uno spazio eterotopico di devianza: un luogo altro, idealmente utopico ma concretamente localizzabile, in cui collocare individui il cui comportamento è fuori dalla norma (cliniche psichiatriche, case di riposo…): in cui sostanzialmente separare e dividere. Da una parte la normalità, dall’altra la devianza. “Fuori dalle mura c’è il bene, dentro c’è il male”, recita un detenuto, completando: “quindi, noi siamo il male”.
Ma questa distinzione è veramente la soluzione? Esistono veramente recinti capaci di racchiudere tutto il male del mondo, allontanandolo dalla civiltà normata e normante, e di ‘rieducarlo’? Il carcere assolve alla funzione per cui è stato concepito? Se è senza dubbio giusto il principio teorico per cui chi commette un reato deve essere punito e ‘rieducato’, dal punto di vista pratico sembrano esserci grosse lacune.
A giudicare dalle cifre, non sembrerebbe: molti criminali, una volta usciti, tornano a delinquere, anche in modo più grave. Questo perchè, almeno in parte, la ‘rieducazione’ non è stata efficace: il sistema, così come è, evidentemente non funziona e le responsabilità, oltre a quelle individuali, sono anche da ricercare in quella collettività normata e normante che sta fuori. La parte del torto, direbbe Brecht, probabilmente dovrebbe essere più popolata di quello che attualmente è…
Dallo spettacolo, alla fine si esce e si torna alla vita ‘normale’. Dal carcere e dalla reclusione forzata, non sempre.
Rita Barbieri