Il progetto “Casa Luna” accoglie in una struttura diurna e notturna le donne vittime di marginalità sul territorio fiorentino. Gestito dalla cooperativa sociale Il Girasole, vuole dare una nuova indipendenza a chi la perde, attivando percorsi personalizzati secondo le necessità.
La fine della strada rivela un grande campo verde, che sembra perdersi all’orizzonte. È lo stesso verde brillante della siepe che, a pochi passi di distanza, abbraccia la struttura. I raggi del sole penetrano dalle grandi vetrate delle finestre affacciate sul cortile. Il cancello, esile e alto, anticipa il grande portone in legno di Casa Luna, varcato da donne che vivono ai margini. Alle spalle hanno storie diverse: chi viene da Paesi lontani, chi ha origini italiane, chi è da tempo nel progetto e chi, invece, è entrata da poco. Indipendentemente dalla provenienza e dal passato, c’è un comune denominatore che unisce le ospiti di Casa Luna: il continuo sostegno che danno loro le operatrici, cuore pulsante del progetto di recupero nato per colmare un bisogno crescente nel territorio, che lamenta la mancanza di strutture specifiche per le situazioni di marginalità femminile.
Elena, coordinatrice del progetto assieme a Francesca, ha creduto fin da subito nelle potenzialità di Casa Luna e ha deciso di dare il proprio contributo alle donne in difficoltà: «La grande sfida di questa realtà è rappresentata dalla varietà di storie, mondi ed esigenze che si presentano: a volte solo per qualche giorno, altre che durano nel tempo». Una varietà che esige l’attenzione e l’ascolto di chi vive in struttura: solo così può nascere un rapporto autentico con l’ospite, presupposto necessario per capire i problemi e fornire le risposte più adeguate. Elena è convinta che «una brava operatrice deve essere affidabile, credibile e avere la capacità di distinguere le pretese dai bisogni. Attraverso l’ascolto e l’osservazione deve saper intercettare i punti di forza e le fragilità dell’interlocutrice, per riuscire a creare dei percorsi finalizzati all’autonomia».
Raggiungerla significa fare i conti con il proprio passato: elaborare i traumi e allontanarsi dalle dinamiche tossiche. E per conquistare una nuova indipendenza serve anche un lavoro che assicuri un reddito dignitoso, che consenta di permettersi un alloggio: «La difficoltà maggiore che ho riscontrato nella mia esperienza in questo settore» — continua Elena — «è legata principalmente alla concretizzazione dei progetti di accoglienza che riguardano le ospiti in uscita. Una volta messi in regola i documenti e dopo aver trovato un lavoro, è difficile riuscire a trovare alloggi accessibili».
Una possibile soluzione? «Sarebbe interessante riuscire a mettere insieme persone con percorsi e storie simili, perché uniscano forze economiche e non solo, dando loro la possibilità di trovare delle case da condividere». È il problema di Angela – nome di fantasia – che ha perso il lavoro in un’impresa di pulizie durante la pandemia. Non ha più potuto pagare l’affitto e la padrona di casa l’ha sfrattata. Angela non ha potuto impugnare lo sfratto perché non aveva un contratto. Per alcuni giorni ha dormito in macchina, prima di contattare l’Help Center di Firenze in via Valfonda, snodo cruciale per la gestione delle situazioni sociali più delicate nel comune. È grazie alle assistenti sociali che Angela ha preso parte al progetto. Adesso, pur lavorando, non riesce a permettersi un’abitazione.
Vorrebbe averla anche per ospitare la figlia e le nipoti, godersele nel suo spazio più intimo e privato. «A Casa Luna devi rientrare entro una cert’ora» – asserisce Angela. «Devi suonare, farti aprire la porta. Vorrei invece poter dire alle mie nipotine di venire dalla nonna e accoglierle a casa mia. Purtroppo per adesso non posso permettermelo, ma spero nel domani». Nonostante le difficoltà, Angela non ha perso la speranza e nemmeno la dignità. Come Laura – nome di fantasia – arrivata a Casa Luna dopo aver divorziato, aver perso la casa ed essere caduta in depressione. Anche lei ha fatto lo stesso percorso di Angela: è l’Help Center di Firenze ad averla indirizzata. Laura è mamma di due figli, che vivono lontano e con i quali conserva un buon rapporto.
Con Angela condivide la professione: anche lei ha fatto le pulizie. Oggi, per problemi fisici, non può più lavorare nello stesso ambito e cambiare mestiere all’età di cinquant’anni è complicato. Sima – anche in questo caso il nome è di fantasia – proviene dall’Etiopia: è arrivata in Italia quando aveva solo quattordici anni, nel 2008. Ha lasciato il suo Paese per le opportunità di lavoro che prometteva il nostro. All’inizio non è stato semplice ambientarsi in Italia. Da quando è arrivata ad oggi, ha sempre svolto la stessa professione: assiste le persone non autosufficienti. Adesso è in sostituzione per maternità: si augura di poter continuare a lavorare anche in futuro. Anche Ghania – nome di fantasia – che proviene dal Marocco, è disoccupata. Grazie al supporto delle operatrici di Casa Luna ha tutti i documenti in regola, ma è ancora in cerca di un’occupazione.
Oltre al supporto delle operatrici, a unire le diverse storie che hanno alle spalle le persone di Casa Luna sembra essere la mancanza di lavoro, o di una retribuzione sufficiente a garantire l’indipendenza. Ma il percorso verso una nuova autonomia non vuol dire necessariamente avere una propria residenza: per chi è in condizione di particolare fragilità, stare in un contesto comunitario e avere un contenitore protettivo ha la stessa valenza di un percorso che prevede l’indipendenza abitativa. In queste situazioni vivere in un ambiente protetto con un’equipe di lavoro a sostegno dei propri bisogni rappresenta un piccolo, grande traguardo.
Il lavoro che le operatrici fanno è complesso e articolato. Nella relazione che creano con l’ospite c’è l’opportunità di arricchire il proprio bagaglio di vita: «In termini di arricchimento personale, questo lavoro aggiunge nuove consapevolezze e nuove sfide, che si intrecciano con il bisogno personale di ‘sentirsi utili’» – confida Cecilia, operatrice di Casa Luna. «Rapportarsi quotidianamente con soggetti fragili, attraverso strumenti e progetti orientati all’integrazione sociale e all’accoglienza, restituisce un senso al proprio ‘fare’ professionale e anche individuale, anche se non sempre nell’immediato».
Anche Lavinia vede un arricchimento in questa professione: «Sono obbligata al confronto quotidiano con i tanti volti attraverso cui si manifesta l’esclusione sociale. L’incontro con queste vite non è sempre pacifico e indolore; è un confronto che talvolta può spaventare, creare sofferenza o frustrazione, ma che sempre offre la preziosa opportunità di riflettere sulla complessità della vita e di accoglierne in modo critico anche gli aspetti più difficili da accettare. Alle ospiti di Casa Luna cerco di trasmettere un sentimento di sicurezza, voglio che trovino in me un punto di riferimento, un piccolo spazio di libertà in cui potersi esprimere e riconoscere».
Un percorso di relazione e ascolto, necessario per lavorare sull’inclusione sociale delle ospiti, nell’attesa che anche alle istituzioni si scaldi il cuore: i meccanismi troppo spesso farraginosi della pubblica amministrazione rischiano di creare e di cristallizzare situazioni di esclusione sociale che difficilmente le figure preposte all’assistenza riescono a infrangere per portare aiuto e cura.
Foto: ©Gianmarco Caroti