Un viaggio nell’arte alla riscoperta della corrente pittorica che si fece grande a Castiglioncello
Esistono luoghi magici, dove la luce gioca con le ombre, in una danza di colori e chiaroscuri; esistono lembi di mondi speciali, che offrono scorci in cui gli occhi si abbuffano con ingordigia; esistono angoli della Terra creati per essere immortalati, per ispirare. Sul finire del XIX secolo l’arte della pittura vive una rivoluzione epocale che sposterà gli orizzonti tecnici e concettuali, stravolgerà il modo di rappresentare, trasformando soggetti e oggetti, portando in scena uno spettacolo tutto nuovo, in cui l’attrice protagonista è la realtà.
C’è un elemento che più di tutti permetterà questo passaggio e, sorprendentemente, non si tratta di un cambiamento concettuale bensì di una vera e propria invenzione: il “tubetto” del colore. La possibilità di utilizzare colori già pronti, senza dover necessariamente lavorare le polveri di pigmento in laboratorio, permette agli artisti di dipingere in presa diretta, di ritrarre i soggetti dal vivo – che siano persone o paesaggi –, e non esclusivamente all’interno dell’atelier. Nasce così la pittura “en plein air”, una tecnica che sconvolgerà completamente l’universo della rappresentazione. Accade dunque, che gli artisti scelgano con cura i luoghi più adatti dove collocare il cavalletto, tenendo conto soprattutto di luce e prospettiva, ricercando scene di vita vera, reale, che sia legata al lavoro oppure al divertimento della gente comune.
Chatou, Auvers-Sur-Oises, Arles, sono alcuni dei famosi, piccoli paesi francesi in cui gli impressionisti si trasferirono per cogliere dal vivo paesaggi adatti al loro nuovo, rivoluzionario, stile pittorico. Quiete e tranquillità, lontano dal caos della città, sono le condizioni ideali insieme alla possibilità di ritrarre scene di lavoro in campagna e scorci di natura incontaminata. Accanto a queste ormai illustri località francesi, s’iscrive di diritto un piccolo paese italiano, toscano per la precisione, una vera e propria “perla” sulle coste frastagliate del mar Tirreno: Castiglioncello, il teatro dei Macchiaioli. Verdi colline che s’innalzano alle spalle di un mare cobalto, una vegetazione ricca e variegata; calma, silenzio e soprattutto tanto sole, luce perfetta per un gruppo di pittori che fecero della macchia di colore il loro credo.
Definire i Macchiaioli come “gli impressionisti italiani” è un errore storico che anche molti critici d’arte, specialmente non italiani, hanno commesso di frequente. E la motivazione è semplicissima: i Macchiaioli vivono e si affermano qualche decina di anni prima rispetto alla corrente impressionista. Firenze, 1855, Caffè Michelangiolo, un gruppo di artisti stravaganti, per abitudini e ideali, si riunisce intorno a un nuovo modo di dipingere. Il centro nevralgico del loro pensiero è il superamento dei concetti di “Romanticismo” e di “Neoclassicismo”, sostituiti da una tendenza “Verista”: si rappresentano dunque soggetti reali, di vita vera, quotidiana, immortalando l’impressione ricevuta dallo sguardo, tramite macchie di colore.
Osservando le scene attraverso uno specchio annerito dal fumo, questi strani, geniali innovatori, riproducono la loro personale concezione dell’immagine del vero: un contrasto di macchie di colore e chiaroscuro. La storia del nome del movimento è molto simile a quella dell’impressionismo francese: un giornalista, durante un’esposizione a Firenze, definì questi bizzarri visionari come i “Macchiaioli”, non senza una vena polemica e denigratoria, che sottolineava un pericoloso e troppo audace distacco dalla tradizione.
Ispirati dalla scuola di Barbizon, in cui si erano distinti celebri pennelli come John Constable, Theodore Rousseau e Jean-François Millet, i Macchiaioli ricercavano sfondi paesaggistici particolari, ritraendo scene di vita comune, di lavoro nei campi, baluardi di quel concetto di “vero” che stravolgerà l’arte di fine Ottocento. I Macchiaioli dipingono nei dintorni di Firenze, cercando di spostarsi dalla città alla ricerca di luce, silenzio e ispirazione, finché un giorno l’arrivo di un benefattore cambierà il percorso del movimento.
Diego Martelli, rampollo di una famiglia patrizia del pisano, è un appassionato di pittura ed è affascinato dai nuovi ideali del reale che dalla Francia di Barbizon scivolano giù fino alla Firenze dei Macchiaioli. Simpatizza, da subito, per le figure del gruppo fiorentino come Telemaco Signorini, Silvestro Lega, Odoardo Borrani, Raffaello Sernesi, Giovanni Fattori e altri ancora; Martelli è un critico, uno di quei personaggi che non rivoluzionano l’arte con il pennello o con lo scalpello, ma con la forza delle idee, con il sostegno morale e soprattutto economico a una corrente pittorica discussa e guardata con sospetto dai contemporanei.
Diego Martelli ha ereditato dallo zio una tenuta meravigliosa, in un paesino costiero illuminato da un sole costante, dove si coltiva la terra ed il silenzio è rotto solo dal fruscio delle foglie al vento, o dal rumore del mare: per i Macchiaioli è perfetto. Martelli accoglie tutti quanti nella sua villa, che si ergeva proprio dove adesso si trova il Castello Pasquini. Immaginate una Castiglioncello completamente diversa da quella che oggi conosciamo: pochissime case abitate, distese di verde incontaminate che s’interrompono bruscamente solo per lasciare spazio ad un mare che non ha ancora risentito di inquinamento chimico di fabbriche e industrie. Da Castelnuovo della Misericordia, passando per le tortuose vie collinari, quasi montanare, di quello che oggi chiamiamo “Poggio Pelato”, arrivando fino alla spiaggia, si palesa una sorta di paradiso per i pennelli dei Macchiaioli.
Villa Martelli diventa il quartier generale di questi pittori che possono sbizzarrirsi; in qualsiasi direzione volgano lo sguardo, possono trarre ispirazione dalla natura o dalle abitudini della gente. La gente, ecco un aspetto fondamentale su cui concentrano la loro ricerca. Ci si chiede: come furono accolti questi strani individui, vestiti in modo stravagante, provenienti dall’ambiente cittadino, dagli abitanti del luogo? A Castiglioncello si conduce una vita semplice, lontanissima dalla mondanità di Firenze. Non si conoscono le nuove dinamiche dell’arte, le correnti pittoriche, l’influenza francese, nulla di tutto questo: si conduce una vita di paese, una vita di campagna, tra il duro lavoro nei campi e le veglie serali.
Sono passati ormai più di 150 anni, ma scavando nelle memorie, risalendo alle parole dei nonni dei nonni, ancora si possono ravvivare le testimonianze di quella che fu davvero una presenza straordinaria all’epoca. Il signor Sergio ci ha aperto le porte della sua casa nella località Spianate; in un piccolo baule di legno rivestito in pelle, conserva un centinaio di fogli ingialliti, pieni di schizzi e disegni confusi. Sono bozzetti di Vito D’Ancona e Nino Costa, celebri pittori Macchiaioli, amici del bisnonno, ci sono scarabocchi a matita e piccole scritte, alcune dediche simpatiche.
Il bisnonno del signor Sergio viveva in un podere a Castiglioncello, che si affacciava sul Poggio Pelato, in direzione Castelnuovo. Più di una volta quei personaggi così atipici avevano cenato e fatto veglie con la sua famiglia. «Amavano vivere qui, diceva mio nonno. Quando lui era piccolo e scorrazzava per i campi, vedeva queste persone che dipingevano, si sedevano davanti alla gente che lavorava e facevano ritratti. Qualcuno non voleva, ma a tanti piacevano, e poi la sera, d’estate, i contadini invitavano i pittori a cena, poi a veglia, e facevano lunghe tavolate dove si rideva, si cantava e si beveva». Una testimonianza preziosa, quella del signor Sergio. Preziosa quanto i disegni che conserva nel suo baule, un forziere d’arte e di bellezza, un po’ come Castiglioncello: il teatro dei Macchiaioli.
Testo di Gianluca Parodi, Foto a cura della Pinacoteca di Brera
In copertina: Silvestro Lega, Un dopo pranzo (Il pergolato), 1868 (fonte Pinacoteca di Brera)