L’amore per Puccini, un abito da grande soirée e il sogno del Teatro alla Scala di Milano: intervista a una delle giovani donne creative più influenti degli ultimi anni.
Un viaggio musicale che parte da Lucca per arrivare ai grandi teatri di Spagna, Giappone, Canada, Libano, Argentina e Stati Uniti, quello intrapreso dalla bacchetta di Beatrice Venezi che ha diretto le orchestre più prestigiose d’Italia e del mondo.
Energica e rivoluzionaria come le donne di Puccini, proprio dalla profonda ammirazione verso la poetica del compositore lucchese, germoglia e si dirama l’ispirazione e l’evoluzione artistica di un orgoglio tutto italiano. L’opera pucciniana rappresenta lo spirito guida che ha costellato i momenti più importanti del suo percorso, in cui Beatrice spicca per la sensibilità artistica, la poliedricità e la straordinaria innovazione.
Nata a Lucca, classe 1990, pianista e compositrice, scelta da Forbes tra i 100 giovani leader del futuro, primo direttore d’orchestra donna in Italia nonché la più giovane in Europa. Diplomata in Pianoforte e Direzione d’orchestra al Conservatorio di Milano, attualmente è direttore principale dell’Orchestra Milano Classica e direttore principale ospite dell’Orchestra della Toscana. Nel 2019 riceve il nobile Premio Leonia Frescobaldi, destinato a donne audaci e innovatrici, scrive il suo primo libro Allegro con fuoco. Innamorarsi della musica classica e pubblica l’album My Journey – Puccini’s Symphonic Works, realizzato con l’Orchestra della Toscana.
Paladina di femminilità, creatività e risorse innovative, Beatrice porta sul podio una libera espressione artistica lontana da cliché e conformismi che erroneamente definiscono il mondo della musica classica come ingessato, cristallizzato e un po’ noioso. Nessun frac sul podio ma incantevoli abiti da sera e una straripante energia muliebre defluisce dai suoi movimenti che sembrano danzare sulle note dello spartito. Per dimostrare la modernità della tradizione e per l’eradicazione di ogni discriminazione nei confronti delle donne, con lei il futuro musicale diventa la scia per tanti giovani attratti e ispirati dalla sua tenacia.
Beatrice, che cos’è per te la musica?
Un momento di libertà. Quella cosa che fa sì che possa esprimermi pienamente e liberamente. Un linguaggio a tutti gli effetti che non è prettamente semantico ma che può essere polivalente nel tipo di significato e, da questo punto di vista, estremamente affascinante. lo associo il concetto di musica a quello di libertà, una forma di espressione speciale.
C’è stata una persona di riferimento, un faro che ti ha “indicato la strada”?
Sì, ce ne sono state due. Il mio maestro di composizione Gaetano Giani Luporini e Piero Bellugi, direttore d’orchestra, le cui lezioni ho frequentato qui a Firenze. Fin da subito ha creduto in me e, per questo, ha la mia gratitudine eterna.
Puccini è il tuo spirito guida. Ci sono altri compositori o direttori d’orchestra, contemporanei e non, che ti hanno ispirata?
Sicuramente i russi perché è un tipo di cultura che ho affrontato e frequentato in maniera piuttosto assidua, lavorando nei paesi dell’ex Unione Sovietica. Da Čajkovskij a ChaČaturjan, e tutta quell’area di influenza. Sono tutti compositori che ho avuto modo di apprezzare e conoscere in profondità anche grazie alla frequentazione con quelle culture. La musica è davvero l’estensione del pensiero, così come lo è la lingua quindi il sapore, il gusto di fare musica in un certo luogo, quella musica in un determinato luogo apporta dei significati del tutto particolari.
Ai fini di una buona esecuzione, come si raggiunge un’intesa con l’orchestra? E qual è la tua modalità di comunicazione, non verbale, con i singoli componenti?
Il dato umano. Prima di tutto c’è da tenere in considerazione il dato umano, cosa a cui credo fortemente. Credo nel valore dell’ascolto che non è solo l’ascolto fisico che, chiaramente, un musicista mette in atto già di per sé, ma è un ascolto più profondo, più poli-sensoriale e legato a un sesto senso, alle energie e agli umori dell’orchestra. Chi sono i tuoi alleati, chi ti è contro, devi avere una certa sensibilità per il dato umano per poterti confrontare e poter cogliere, con una certa facilità, questi indizi. È essenziale per me che il direttore sia prima di tutto un buon lettore dell’animo umano che ha davanti.
Ti sono capitati momenti di crisi d’intesa con un’orchestra? Come li affronti?
Sì, mi è capitato che un primo violino avesse un atteggiamento un po’ paternalistico, a quel punto hai due scelte: o il contrasto diretto, che va saputo fare in modo da non porti contro tutto il resto del gruppo – ci vuole intelligenza anche nell’affrontare un contrasto –, oppure tirare i remi in barca e soprassedere, il che è probabilmente più una scelta da direttore giovane, però per me non valida. Non credo molto nel risultato che ottieni da questo atteggiamento di rassegnazione quindi io sono per definire quali sono le mie volontà e non cedere.
E il rapporto con il pubblico?
Il pubblico per me è fondamentale, è assolutamente il terzo attore nel concerto. Veniamo da un periodo particolare in cui abbiamo fatto concerti senza pubblico e già da questa cosa se ne percepisce effettivamente l’importanza. Poi c’è pubblico e pubblico, c’è quello che partecipa emotivamente al concerto e quello che non lo fa, e anche questa differenza poi la si sente. Comunque sia, anche in momenti di lontananza come quelli che abbiamo vissuto con le esecuzioni in streaming, la mia performance non è mai solo per il palcoscenico ma è sempre per la platea, nel senso che è sempre fatta, pensata e concepita nei confronti del pubblico.
Ti riporto le parole del direttore Riccardo Muti durante una recente intervista: «Anche il podio, che viene visto come un trono su cui si erge il direttore d’orchestra, è invece un’isola di solitudine: sei solo davanti all’orchestra e davanti al pubblico». Qual è il tuo pensiero? La solitudine è una componente che prevale in questo lavoro?
Io sono d’accordo all’80% con questa cosa, nel senso che è vero che c’è una parte di solitudine nello studio, è indubbio, è un momento grande e importante nell’attività di un direttore, non è marginale. Da un lato c’è la responsabilità, che ricade sulle spalle di un’unica persona per tutta la performance. Che si parli di musicisti, coro, cantanti, la responsabilità è tutta del direttore, in questo c’è un aspetto di solitudine, così come nella posizione sociale e antropologica del direttore. Durante il momento della produzione, per quanto si creino anche dei rapporti di amicizia con cantanti, musicisti e orchestra poi, alla fine, il direttore deve mantenere un certo tipo di distacco e quindi qua ritrovo un altro aspetto di solitudine. È anche vero, e questo è il 20 % su cui non sono d’accordo, che poi il risultato lo si ottiene insieme. Io in questa cosa credo tantissimo. Credo tantissimo nella potenza di un direttore che dirige una sua orchestra e crea un prodotto con l’apporto di tutti, perché non può essere diversamente. La musica è un respirare insieme, è avere un progetto comune e condiviso.
Hai partecipato al progetto di contaminazione artistica con la musica elettronica dei Cat Paradox. Di che esperienza si è trattato?
Tutto è nato da un’idea di alcuni amici, appunto i Cat Paradox: Livio Magnini, Elio Marchesini e Michele Monestiroli, tre personaggi con tre estrazioni molto diverse, stiamo parlando rispettivamente di Bluvertigo, Scala e 883, per intenderci. Siamo prima di tutto amici e ci siamo trovati a ragionare su quanto potesse essere interessante l’idea di un suono fisico dell’orchestra che viene registrato, trattato in maniera digitale e poi viene utilizzato durante la performance dal vivo. Fisico e digitale si sovrappongono creando degli effetti molto particolari: questo è stato il focus del progetto.
Stai apportando un contributo umano e professionale che va oltre la sfera prettamente musicale. Qual è il tuo augurio per il futuro?
Che non ci sia più la necessità di fare la distinzione tra direttore donna e direttore uomo, in generale, un po’ in tutte le professioni. Il problema, evidentemente culturale, è che non si risolve con la declinazione forzata al femminile dei nomi, né tantomeno sottolineando questo gap, questa differenza tra uomo e donna, anzi, ulteriormente ghettizzante. Andare nella direzione di una reale parità, a partire dal non doversi più preoccupare di fare la differenza tra direttore uomo o direttore donna.
Foto di Alessio Li