La già fondatrice dell’associazione “Il Grano e le Rose” è stata eletta nel decimo congresso nazionale tenutosi a Genova lo scorso luglio e a FUL ha raccontato le sue emozioni, così come i suoi obiettivi per questa nuova grande avventura.
Barbara Nappini è già nella storia. Per la prima volta, in ben trent’anni, Slow Food ha infatti eletto lo scorso luglio una presidente donna. Ma all’attivista fiorentina non piacciono etichette o concetti stereotipati, Barbara non si vede come la prima presidente donna di Slow Food, ma “soltanto” come la nuova presidente di Slow Food. Con tanta voglia di fare quanti traguardi da raggiungere, per un mondo più buono, più pulito e più giusto per tutti. A prescindere dal sesso di chi cerca di farlo rispettare.
Barbara Nappini, che effetto le ha fatto essere stata scelta come la prima donna della storia a capo di Slow Food?
Nei giorni immediatamente successivi alla mia elezione questo fatto ha creato molto clamore: ciò significa che abbiamo un problema. Le donne sono metà della popolazione mondiale, eppure il fatto che io sia femmina ha trasformato la mia presidenza nazionale di Slow Food in una “questione politica”, cosa che in effetti è. Ovviamente, io non penso molto al fatto di essere donna, come tu non pensi al fatto di essere un uomo. Ho assunto quest’incarico considerandolo un ottimo strumento per fare meglio e di più l’attivista per Slow Food. Ma indubbiamente questa presidenza femminile ha un valore più ampio, che io interpreto come valore di testimonianza: dunque, può succedere davvero che una donna rappresenti un’associazione nazionale importante come Slow Food, che evidentemente per anni è stata percepita come maschile. Questo significa anche che è mancata una parte della narrazione, narrazione che sarà da questa governance ripristinata e amplificata.
Quali sono state le tappe fondamentali del percorso che l’ha portata a questo nuovo ruolo?
In realtà io non ho mai fatto passi funzionali a raggiungere uno status o un incarico, anzi. Ho cercato di fare sempre quello che ritenevo giusto, spesso scegliendo la strada più lunga o tortuosa. Vorrei raccontare un aneddoto particolare che ho vissuto in prima persona. Nel 2017 ero a Chengdu, in Cina, al nostro Congresso Internazionale con la mia delegazione toscana. Avevamo una dichiarazione congressuale internazionale da licenziare e a me parve, leggendola, che mancasse una parte della storia. Avevo ascoltato quel giorno la testimonianza delle donne che ogni giorno ricuciono le reti dei pescatori in Papua Nuova Guinea: nella nostra narrazione mancava di qualcosa, nella dichiarazione non c’era il femminile. Scrissi qualcosa, lo condivisi con i miei compagni toscani e quindi coinvolsi un buon numero di donne da tutto il mondo lì presenti, avviando poi la procedura per richiedere un’integrazione alla dichiarazione.
Alla fine ottenemmo di inserire le seguenti righe: «… in particolare riconosciamo, favoriamo e valorizziamo il fondamentale contributo che le donne apportano in termini di conoscenza, lavoro e sensibilità in ambito familiare, comunitario e sociale». In quel momento per me era questa la cosa giusta da fare. Non era la più facile o la più vantaggiosa, ma la più giusta. Forse fare la scelta più giusta oggi mi ha guidata fin qui.
Quali obiettivi si è prefissata in prospettiva?
Da anni collaboro con l’ufficio educazione Slow Food e curo progetti educativi e formativi per Slow Food Toscana. Proprio questo sarà il mio primo ambito di impegno. L’educazione, d’altronde, è uno dei tre pilastri della nostra Call to Action, insieme a biodiversità e advocacy, e lavorerò affinché l’educazione Slow Food sia bella, efficace e innovativa. Una parola che mi è molto cara poi è “equità”. In tal senso, intendo lavorare esattamente in quegli ambiti in cui la trasversalità si esprime maggiormente: la ristorazione collettiva e la nostra rete migranti. Infine, mi piacerebbe saper narrare questa “rigenerazione” necessaria che Slow Food sta vivendo con parole, facce, voci che hanno bisogno di uno spazio di partecipazione ed espressione.
Biodiversità, educazione e advocacy: ci spiega più in profondità la Call to Action di Slow Food?
La nostra Call to Action e i tre pilastri menzionati sorreggono la nostra indicazione politica dei prossimi anni a livello mondiale. Li abbiamo sempre presenti, ben consapevoli che non saremo soli: ci accompagnano infatti moltissime organizzazioni, movimenti e associazioni, che nel mondo chiedono un mondo più giusto. Anzi, più buono, più pulito e più giusto per tutti!
Un albero per ogni socio di Slow Food nei prossimi quattro anni: tra le iniziative che avete in programma, questa ci ha colpito non poco.
È davvero una bella sfida, ma magari riusciremo a piantarne ancora di più! Questa idea nasce dalla nostra amicizia con Alberitalia, che da comitato è diventato recentemente una fondazione di cui siamo soci. L’obiettivo è piantare 60 milioni di alberi e noi facciamo la nostra parte con un albero per ogni socio: alberi di varietà adeguate che devono trovare il luogo di piantumazione adatto affinché lo si possa normativamente definire “bosco”. A quel punto quell’area è tutelata e svolge il suo ruolo vitale in molti modi: tramite il sequestro di CO2, la produzione di ossigeno, fungendo da area di riequilibrio naturale, tutelando il suolo, salvando il paesaggio…
In questo Alberitalia fornisce il suo know how e noi una rete sensibile ai temi ambientali, ma contiamo sugli enti pubblici per mettere a disposizione terreni adeguati, soprattutto nelle aree urbane e periurbane, sostenendoci in questa bella visione collettivamente verde.