Don Alessandro Santoro è un “prete operaio”. Celebra la messa in un prefabbricato alle Piagge, fra i quartieri più disagiati di Firenze. Ha sposato un’idea di Chiesa controcorrente: povera, umile e aperta a tutti. Scelta che ha pagato di persona.
Alessandro Santoro nasce a Livorno. È ancora piccolo quando si trasferisce a Firenze. È ancora un ragazzo quando si fa prete nel 1990, a quasi 26 anni. Come buona parte delle prese di posizioni future, la decisione di diventare sacerdote non avviene secondo i canoni: non risponde infatti né a una vocazione, né a una chiamata. E allora, com’è maturata questa sua scelta? «Non potevo sopportare l’idea di vivere un’esistenza solo per me. Sentivo sempre più forte l’idea di vivere proiettato fuori da me stesso e ho intravisto la possibilità di farlo nell’esperienza di Gesù.
La vita che ci è stata donata deve essere libera, e più che altro liberata e liberante. C’è un’idea di vita libera in cui credo, sciolta da qualsiasi tipo di pretesa di possedere e ancorata all’idea di darsi, di sbriciolarsi dentro l’umano. La mia volontà è cercare di diventare un pezzo di pane dentro l’umanità, di condividere la mia esistenza con gli altri. Perché sono diventato sacerdote ancora oggi non saprei spiegarlo in maniera razionale. È stato un gesto anarchico».
Don Alessandro Santoro ha concretizzato il suo credo nella quotidianità. Officia in un prefabbricato alle Piagge, nella periferia di Firenze. La scelta non è casuale: il quartiere è fra i più in difficoltà della città. La parrocchia è priva di qualsiasi sfarzo che caratterizza molte chiese. Padre Santoro poggia gli oggetti per la funzione su un semplice tavolo, i fedeli si siedono su delle sedie e aspettano che sia il sacerdote ad andare loro incontro per l’ostia.
Al termine della messa, le persone danno mano a svuotare la stanza che ospita altre attività. Una scelta radicale, lontana dai canoni tradizionali del clero: «Del resto, io sono un antireligioso: sono per gli uomini di fede, non di religione. Se la religione congiunge cielo e terra, materiale e spirituale, ben venga. Se invece diventa un modo per separarsi, per opporsi a chi religioso non è, meglio che la religione scompaia».
Un’idea di chiesa comunitaria, aperta a tutti. Il prefabbricato è stato il teatro della vicenda che ha richiamato l’attenzione dell’istituzione cattolica e dei media. «Porto ancora addosso il segno di quella storia. Da quel momento in poi ho capito che la Chiesa, se vuole, rischia di diventare un’istituzione quasi totale. Come il carcere o il manicomio, perché per il proprio bene è disposta a sacrificare tutto il resto.» L’episodio incriminato risale al 2009.
Don Alessandro celebra il matrimonio tra Sandra, nata uomo e rinata donna, e Fortunato. Scoppia il caos: la Chiesa non riconosce l’atto e sospende il sacerdote, reo di aver rotto la dottrina matrimoniale ecclesiastica celebrando un matrimonio omosessuale. Infatti la Chiesa codifica il genere delle persone al momento del battesimo (che non può essere ripetuto): nonostante il percorso, Sandra era ancora considerata un uomo dall’autorità religiosa. È l’inizio di un periodo di sospensione durato sei mesi, durante il quale Padre Santoro non può svolgere alcuna funzione. «Dovevo ravvedermi,» – racconta il prete delle Piagge – «pentirmene. Ho vissuto il periodo della sospensione vicino a Diacceto (provincia di Firenze, Ndr), in un piccolo eremo.
Quando sono diventato prete ho rinunciato subito allo stipendio ecclesiastico, così ho dovuto riorganizzarmi anche con il lavoro. Sono riuscito a trovare un’occupazione in un forno. Anche quando sono rientrato alle Piagge ho continuato per due anni ad andare a lavorare da loro il venerdì notte. Fare il pane mi ha riconciliato con me stesso e con gli altri. Quando mettevo le mani in pasta pensavo che avrei voluto sapere nascondermi come fa l’acqua, e gonfiare come fa il lievito». Nel periodo di sospensione mandava il pane anche alla sua cara Comunità, che mai l’ha lasciato solo.
Quando Padre Santoro è uscito di scena, i membri hanno infatti continuato a organizzare le attività e a fare pressione perché venisse reintegrato. Così, tutti i venerdì centinaia di persone andavano sotto la Curia per esprimere la propria vicinanza a don Santoro. Durante una celebrazione importante del vescovo nella Cattedrale del Duomo di Firenze, diverse persone si sono alzate in piedi, ognuno con una candela accesa in segno di denuncia della sospensione. Dall’altra parte, Betori (Arcivescovo di Firenze, Ndr) non ha trovato nessuno disposto a svolgere l’attività alle Piagge.
Così, dopo sei mesi, l’autorità ha autorizzato il ritorno del prete. Padre Santoro non si è mai pentito di quello che ha fatto: «Lo rifarei. Quando una persona disobbedisce perché fedele alla vita della gente con cui condivide l’esistenza, la disobbedienza non è una possibilità, è un dovere. Io non sarei potuto stare un giorno di più alle Piagge se avessi detto di no a quello che Fortunato e Sandra mi hanno chiesto. Questa storia non penso che mi abbandonerà più. C’è una lacerazione che a distanza di anni ancora non è stata richiusa». A Sandra e Fortunato, rimasti uniti dal rito civile celebrato in carcere prima del matrimonio in chiesa, ha portato solidarietà anche don Luigi Ciotti, tra le figure di riferimento di don Alessandro.
Don Alessandro Santoro ha un’idea anticonformista anche sul celibato, che per lui dovrebbe essere facoltativo: «A mio modo, ho una famiglia anche io. Mi sento però defraudato della paternità».
La Comunità di base delle Piagge è un presidio di umanità a bassa soglia, aperta e senza un’identità definita. Una comunità umana con diverse anime, i cui membri si incontrano nelle differenze e ne fanno ricchezza. Come un arcobaleno, dove ognuno ha le sue sfumature di colore che si uniscono a quelle degli altri. Ospita tre cooperative e un’associazione di volontariato.
Per Padre Santoro l’ambizione è che un giorno si dissolva: «Vorrei che la Comunità delle Piagge continuasse a esistere anche senza di me e che diventasse sempre più un granello di polvere dentro un meccanismo perverso: un presidio di umanità, un luogo non luogo. Quando non esisterà più, vorrà dire che tutto il quartiere è diventato comunità».
Foto di Gianmarco Caroti