Bottega artigiana attiva da oltre 50 anni nel campo degli arredi e dell’illuminazione in ottone e bronzo, Il Bronzetto si trova nello storico quartiere dell’Oltrarno, quartiere simbolo dell’artigianato fiorentino.
Simone Calcinai è il general manager e la mente creativa del Bronzetto, ha preso le redini della ditta quando era molto giovane insieme a suo fratello Pierfrancesco. Cresciuti a bronzo, ottone e Pulp fiction si amano definire Mr Wolf uno, Pierfrancesco, colui che “risolve i problemi” e Mr Flow (Wolf al contrario) l’altro, Simone, colui che invece i problemi li crea! La perdita del padre ha portato i fratelli a sfruttare l’incoscienza della giovane età per svincolarsi dalla mentalità chiusa di un obsoleto modo di lavorare e di pensare. Dal “si è sempre fatto così perché dovremmo cambiare?” al “cambiamo perché è solo così che potremo sopravvivere e sperare di prosperare”; dal “no, non lo possiamo fare” a un’azienda moderna al passo con i tempi e le tecnologie in cui “tutto è possibile”. Questo è il Bronzetto oggi, un laboratorio artigiano guidato da Simone, Pierfrancesco e altri tre soci, dove le tradizionali tecniche di lavorazione del bronzo e dell’ottone coesistono con le tecnologie moderne per offrire un prodotto artigianale di alto livello.
Quando eri bambino cosa sognavi di fare da grande?
Nato da babbo bronzista e mamma casalinga, da grande avrei voluto fare l’architetto. Mio zio era architetto, e sono molto legato a lui e alla zia. Entrare in casa loro era come entrare in un altro mondo: pieno di oggetti, frequentato da amici creativi e fuori schema. Oggi ho spesso a che fare con quella categoria professionale e ne conosco le varie sfaccettature.
Che fiorentino era tuo padre?
Mio padre era nato da una famiglia di origini umilissime, in provincia di Firenze, a Raggioli, un paesino che prende il nome dai raggi del sole che lo illuminano e che si trova sotto Vallombrosa, che invece, all’opposto, è sempre in ombra. All’età di undici anni, sua sorella – che lavorava a Firenze come apprendista sarta – gli trovò un lavoro presso la bottega del bronzista Baldini che in quel periodo era il punto di riferimento per tutte le famiglie bene d’Italia. Nel ’63, dopo aver imparato il mestiere, si mise in proprio.
Era un fiorentino legato alle tradizioni ma in una maniera non troppo strillata, mitigata anche dalle origini casentinesi di mia madre. Era attaccatissimo alla maglia viola, per cui tifava e soffriva. In casa dovevo parlare un italiano pulito, la mamma mi correggeva se usavo l’accento fiorentino del babbo.
Purtroppo ho perso mio padre quando avevo ventiquattro anni, l’età in cui il rapporto con i genitori cambia, in cui inizi a rapportarti con loro in modo adulto, per questo non posso dire di averlo conosciuto fino in fondo, forse nemmeno di aver compreso del tutto la sua fiorentinità.
Io sono ed ero molto diverso da lui, ma forse proprio per questo gli davo un altro tipo di soddisfazioni. Oggi portare avanti quello che lui aveva iniziato con tanta fatica, partendo dal niente e senza istruzione, è quello che mi fa andare avanti, che mi fa perseverare, che mi possa permettere di dire “Ce l’ho fatta” al suo posto.
Chi sono stati i tuoi maestri?
Oltre ad aver avuto la fortuna di imparare da bravi artigiani, sono soprattutto un imprenditore e quindi i miei maestri sono state tutte le persone intelligenti che ho avuto la pazienza di ascoltare. Sono un uomo e un imprenditore contemporaneo, che non si è mai fermato a quello che aveva raggiunto, ho sempre avuto la curiosità di guardare oltre, di affacciarmi a quello che stava per accadere, e spesso ci sono arrivato prima di altri, grazie a idee che si sono rivelate vincenti.
Cos’ha decretato il successo dell’azienda?
Alla morte di mio padre, io e mio fratello – l’alter ego della mia vita – ci siamo ritrovati tutto sulle spalle. Eravamo ragazzi disomogenei nei caratteri e senza nessuna esperienza imprenditoriale, e forse questa è stata la nostra fortuna. Siamo partiti da zero, senza schemi e senza l’impostazione da “bottegaio” di tante altre realtà allora presenti. A questo si aggiunge anche la voglia di riscatto rispetto a mia madre che mi sognava ragioniere o con un posto fisso. La scuola non faceva per me e, dopo una bocciatura, persi il contatto con lei che vedeva nello studio l’unica via per emanciparsi: quel giorno morì il bruco ma nacque la farfalla.
Come nasce Brass Brothers & co.?
Una sera vado a cena da un amico che, a un certo punto, tira fuori due lampade. Fino a poche settimane prima le avrei distrutte tanto ero abituato a lavorazioni raffinate, cesellature e preziosi ornamenti. L’industrial design è, da un punto di vista artigianale, il basic della produzione, ma quella sera ebbi un’illuminazione: forse potevo arricchirlo con qualità e altre esperienze, anche perché il classico stava diventando sempre più difficile da vendere e il mercato ne apprezzava sempre meno il vero valore artigianale. Era il 2009. Gli anni del ritorno al minimalismo delle linee e alla qualità del prodotto, i locali – bar e ristoranti – che sorgevano numerosi erano arredati con ferro e materiali di riuso e io stavo pensando a come adattarmi a quel nuovo stile. Quella cena fu illuminante: da quelle applique di Stilnovo tirai fuori una nuova collezione che, nata di getto, perfezionai grazie ai consigli di amici arredatori e designer. Sono stati anche gli anni in cui ho iniziato la collaborazione con Francesca, che dette una nuova veste al mio cambiamento e in cui prese vita Brass Brothers & Co. Il nome mi convinse da subito: ho da sempre nel cuore i Blues Brothers, l’ottone è il metallo musicale per antonomasia, e poi rappresenta la storia mia e di mio fratello. Creammo il logo: un plettro, lo trovammo subito convincente. Partecipammo a Maison et Object con un micro stand e un pieghevole fatto all’ultimo momento in modo casalingo ma originale, eravamo diversi e innovativi e fu un grande successo.
Da una parte abbiamo il Bronzetto, la sua anima classica, ricercata, il prodotto custom made, il legame con la tradizione. Dall’altra Brass Brothers & Co, la linea design che ci rende attuali e ci permette di sperimentare e giocare con un approccio più divertente e contemporaneo.
Come definiresti oggi la tua bottega?
La definirei una bottega “multitasking”, fatta di preziose persone interne all’azienda ma anche di fruttuose collaborazioni esterne. Ci piace fare rete con i professionisti e vorremmo incrementare sempre più la nostra vocazione a fare da punto di riferimento per produzioni creative e imprenditoriali, vorremmo sostenere e scommettere su altre piccole aziende in cui vediamo potenziale di crescita, offrendogli un supporto logistico, manageriale e anche economico, se necessario.
Cosa vuol dire avere una bottega artigiana oggi?
Essere legati ai prodotti che realizziamo con la consapevolezza che, rispetto alla tradizione, esistono anche altri modi di pensarli, produrli. L’artigiano oggi non può più permettersi di dire “lo abbiamo sempre fatto così e così continueremo a farlo”. Deve essere attento a tutto quello che non si fa e non si farà più proprio in quel modo, capendo se può trarne esempio e insegnamento per attualizzare il proprio prodotto e il proprio modo di fare impresa.
Qual è il tuo rapporto con il territorio e quanto influisce sul tuo lavoro?
Gli amici del quartiere mi chiamano goliardicamente “il Sindaco di Porta Romana” e l’Oltrarno è casa mia. Quando l’Oltrarno, a partire dalla zona di San Frediano, diventò alla moda e le case iniziarono a essere acquistate da signori e stranieri desiderosi di Rive Gauche fiorentina, iniziò la lotta con gli artigiani che da secoli abitavano qui. Rumori, odori, ritmi che non si conciliavano con quelli dei nuovi abitanti. Io mi batto perché questo non avvenga, perché il quartiere rimanga autentico nel suo equilibrio tra attività, lavoro, residenze. Chi vive qui deve sostenere le attività locali perché se queste spariranno le strade diventeranno buie e anonime, così come noi artigiani sappiamo di aver bisogno di un quartiere abitato perché sono le persone con le loro intenzioni a fare le città.
Che percorso consiglieresti a un ragazzo che vuol fare il mestiere dell’artigiano oggi?
L’apprendistato è ancora fondamentale. Guardare, osservare, studiare, perseverare con umiltà. A bottega, da ragazzi, ci si ritrova a fare per mesi e mesi sempre la stessa cosa, le stesse mosse, a lavorare sullo stesso oggetto, a imparare la fondamentale qualità della pazienza. La ripetitività delle azioni insegna a scollegare le mani dal cervello, le mani avanzano con sapienza e disciplina guidate dagli occhi e la testa divaga in pensieri rilassanti calandosi in una sorta di stato meditativo e creativo.
Testo e foto di Francesca Pagliai