A che punto siamo con la birra artigianale in Toscana

come siamo messi con la birra artigianale in Toscana

Come siamo messi con la birra artigianale toscana? Tra diffusione sul territorio, capacità di radicamento e alta qualità dei prodotti realizzati, diremmo piuttosto bene! 

Toscana: terra, da sempre, “di mille campanili” e da qualche anno anche “di microbirrifici”; non mille magari, ma un centinaio buono sì. Anzi, per l’esattezza 108, stando ai dati correnti (al giugno 2023) reperibili attraverso il portale dedicato (microbirrifici.org): una sorta di anagrafe (non ufficiale ma attendibile) del movimento brassicolo artigianale nel nostro Paese. Ebbene sì, nel comparto economico occupato dalla “piccola manifattura della pinta”, il Granducato conta oggi 108 marchi attivi (occhio, però: il contatore è fisiologicamente “ballerino”, tra nuove aperture e, al contrario, cessazioni che possono presentarsi ogni settimana, per non dire ogni giorno). Un reticolo produttivo il cui complesso è suddiviso a sua volta in due rami: da un lato, le 64 unità che sono titolari del rispettivo impianto di lavorazione (e che sono classificabili come “birrifici” in senso proprio); dall’altra parte, i restanti 40 nomi, che invece, non disponendo di una loro struttura operativa (in questo caso si parla di “beer-firm”), si appoggiano a uno stabilimento attrezzato per il contoterzismo.

Nell’insieme, tra il Tirreno e l’Appennino, si ha di fronte un panorama che, per consistenza numerica, colloca la regione al quarto posto della classifica nazionale, di seguito a Lombardia (prima con 238 imprese), Veneto (secondo con 152) e Piemonte (terzo con 118), per un’incollatura davanti all’Emilia Romagna (quinta a quota 101) e seguita da Lazio (95), Campania (84), Puglia (81), Sicilia (79), Marche (68), Abruzzo (50) e via via tutte le altre – sommando le cifre lungo tutta la Penisola, il totale è di 1519 marchi attivi sull’intero territorio italiano. 

Quantità, ma non solo.

Insomma, in termini dimensionali, quelli esibiti dalla Toscana sono oggettivamente numeri di tutto rispetto;  tuttavia, in un’ideale fotografia relativa allo “stato di salute” del suo tessuto microbirrario, ancora più significativi risultano alcuni aspetti di carattere non puramente quantitativo. Tre in particolare: primo, la capacità di radicamento dimostrata, nella regione, da parte del settore dell’artigianato brassicolo; secondo, l’alto livello raggiunto da alcuni artigiani sia nella qualità delle loro produzioni sia nella rispettiva specializzazione nei diversi filoni tipologici in cui la birra stessa si classifica; terzo aspetto, l’esistenza di una vocazione al radicamento territoriale, cioè alla vendita, in piccoli volumi fatti circolare principalmente in ambiti locali. 

Consolidamento.

Dal 2003 – anno in cui il movimento artigianale toscano ha mosso i suoi primi passi – di “caduti sul campo” ce ne sono stati eccome: 41, per la precisione, ovvero il 27,51% sul totale dei marchi che si siano affacciati, nel corso del tempo, sullo scenario regionale. Eppure, a fronte di un simile “tasso di mortalità”, inoppugnabilmente elevato, occorre anzitutto considerare alcuni elementi di natura generale, quali la stabilità relativa dell’intero comparto “micro” nazionale, gli effetti delle crisi economiche succedutesi via via (tra cui quella legata alla pandemia da Covid), un consumo brassicolo pro capite che nella nostra regione è particolarmente basso – attorno agli 11 litri (in Italia la media è poco superiore a 30, con punte in Sardegna e Veneto, rispettivamente a quota 60 e 66.

Comunque, nonostante tutto questo, non solo il Granducato presenta un saldo numerico largamente positivo, ma fa anche rilevare con piacere la sopravvivenza di alcune realtà storiche, transitate indenni attraverso i non pochi momenti di difficoltà, tra cui “L’Olmaia” (Montepulciano, Siena) e “La Petrognola” (Colognola, Lucca), la cui apertura risale al 2005, “Amiata” (Arcidosso, Grosseto, oggi beer-firm) e Brùton (San cassiano di Moriano, Lucca), debuttanti nel 2006; infine, soprattutto “Mostodolce” (Vaiano, Prato) e “Birrificio Artigiano” (Bientina, Pisa; con locale di somministrazione, “L’orzo bruno” nel centro del capoluogo), che in regione sono stati i due veri apripista, avendo esordito nel 2003. 

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Territorialità.

Sui 108 marchi attualmente attivi, 10 operano secondo una modalità che corrisponde alla formula del “brewpub” vero e proprio, ovvero un impianto di lavorazione con annesso locale di somministrazione che assorbe per intero o quasi i volumi di birra sfornati annualmente – “Doctor B” a Livorno, “La Staffetta” a Calci (Pisa), “La Collina” a Loppeglia (Lucca), per dirne alcuni. Ma a ben vedere sono molti altri i birrifici toscani che si trovano in una situazione simile; sebbene distribuiscano esternamente una certa quota della propria produzione, in realtà tale quota è piuttosto contenuta e il grosso dello smercio avviene attraverso le spine della casa: così è per i già citati “Orzo Bruno” e “Mostodolce”, idem per il giovane “Poggio Rosso” (Peccioli, Pisa) e per “Birra de’ Neri” (Monterotondo, Grosseto). Infine, anche tra le realtà più veterane e strutturate, il pub in gestione diretta (con le migliori marginalità che assicura nella vendita) si sta dimostrando un “polmone” troppo importante e, dunque, uno strumento (una strada) su cui investire – così è stato, ad esempio, per “La Gilda dei Nani Birrai” di Pisa (che ha aperto “La caverna dei nani”, a Pontremoli, Massa) e per il “Piccolo Birrificio Clandestino”, a Livorno, che si è dotato di un’ampia tap-room con cucina.

In sintesi, il quadro evolve verso l’orizzonte del consumo in loco, garanzia di bevuta fresca, al riparo dai rischi del trasporto e della gestione dei recipienti di confezionamento (fusti, bottiglie o lattine) affidata a mani altrui. Peraltro, in tema di territorialità (oltre a sottolineare come non manchi neppure un presidio isolano, con “Birra Elba”, a Portoferraio), è rilevante notare come si stia facendo largo anche la scelta della (parziale, per ora) autoproduzione della materia cerealicola, insomma l’opzione del “birrificio agricolo”, status che accomuna oggi nomi nuovi e “anziani”, come (tra gli altri) “Radical Brewery” (Porcari, Lucca), “J63” (Cenaia, Pisa), “Opificio Birrario” (Lorenzana, Pisa), “La Stecciaia (Rapolano, Siena), “Saragiolino” (Torrita, Siena). 

Specializzazione.

Ultimo elemento di rilievo, l’affermazione di alcune vocazioni produttive grazie alle quali la Toscana offre, in ambito birrario, un assortimento di tipologie davvero esauriente. Parlando di basse fermentazioni, ad esempio, il filone viene esplorato da una moltitudine di marchi in regione, trovando poi un interprete consacrato in (quasi) esclusiva nel già citato brewpub livornese “Doctor B”. Tra le alte fermentazioni, quelle della tradizione belga hanno una loro espressione d’eccellenza a Pietrasanta, in casa “Birrificio del Forte”. Mentre quelle della tradizione britannica attecchiscono bene a Castelfranco Piandiscò (Arezzo), dove opera “Calibro 22”, così come Prato, sotto le insegne di “Fermento Libero”, e ugualmente a Pienza, dove la “Brasseria della Fonte” spicca per un vasto e raffinato catalogo di Imperial Stout affinate in vetro e in botte: un tema, quello delle maturazioni in legno, caro anche ai già citati “Clandestino” e “Forte”.

Ulteriore capitolo le luppolature statunitensi; pure su questo fronte i contributi abbondano:i vari “Chianti Brew Fighters” (Radda, Siena), “Badalà” (Montemurlo, Prato), “Nostrale” (Buggiano, Pistoia), Toptà (Montecarlo, Lucca), “Mudita Brewery” (Stagno, Livorno), “26 Nero” (Poggibonsi), oltre allo stesso “Calibro 22”. Si cambia pagina, le Italian Grape Ale: ovvero le produzioni con acini o mosto d’uva, e in questo recinto ecco (tra altre) le esperienze del già menzionato “Forte”, del “Birrificio Apuano” (Massa), di “Podere La Berta” (Castelnuovo Berardenga, Siena) e “La Diana” (Isola d’Arbia, Siena). Infine le fermentazioni non convenzionali, per le quali menzionare in particolare il percorso intrapreso da “Casa Gori” (Pienza, Siena) e da “Cantina Errante” (Barberino, Firenze). 

Articolo a cura di Simone Cantoni