Tra messaggi dal contenuto sociale e provocazioni, la vera street art rimane comunque quella che si fa in maniera impulsiva e libera. Intervista all’artista pistoiese LDB.
Ci sono spesso bambini negli stencil di Lorenzo, in arte LDB, il nostro Banksy toscano. C’è la gentilezza, il rispetto per il prossimo e per l’ambiente, l’amore per la vita. Non per questo i suoi messaggi mancano di impatto, anzi. Arrivano dritti al cuore, toccano l’anima, fanno pensare.
Nato e cresciuto a Pistoia, non si è mai allontanato dalla sua città, alla quale è molto affezionato, soprattutto per il valore artistico che racchiude. La sua vita è quella di un ragazzo normale, senza grandi eccessi: dopo le superiori, decide di iscriversi alla Facoltà di Architettura di Firenze e, sebbene non giunge a terminare il percorso, questo passaggio (sia dal punto di vista personale che professionale) influenza molto gli sviluppi della sua vita, fino ad oggi.
«La mia parte artistica si lega a doppio nodo con questa esperienza di studio» ci racconta «in quanto mi ha dato sia l’opportunità di approcciarmi alla città in modo più consapevole, che di affinare la conoscenza di determinati programmi digitali su cui faccio affidamento».
Quando è iniziata la tua passione per l’arte urbana?
I primi approcci sono nati verso gli ultimi anni delle superiori, verso il 2005 o il 2006, quando iniziarono ad arrivare le immagini delle opere di Banksy che, in effetti, per me è stato un seducente ispiratore: una cosa davvero nuova e a quel tempo ero completamente a digiuno di arte urbana. Il genio di questo straordinario artista mi colpì immediatamente e, insieme a un mio coetaneo, ci mettemmo – lo ricordo molto bene – a una scrivania di casa mia a disegnare e a ipotizzare vari bozzetti per poi trasferire il soggetto prescelto su una “mascherina”.
Ne venne fuori un pezzo molto semplice, tipo rebus, che raffigurava una sveglia con al centro un “TI”: una sorta di messaggio, un incoraggiamento a svegliarsi. Una cosa molto adolescenziale, tuttavia c’eravamo impegnati per cercare un soggetto che avesse anche un senso. Tra l’altro qui a Pistoia, di quel primo lavoro, qualcosa è rimasto, anche se si parla di una ventina di anni fa.
Successivamente con il mio amico ci siamo divisi artisticamente ma ho continuato per conto mio a sviluppare la passione per l’arte urbana declinandola con varie tecniche.
Per esempio quali?
Ho provato un po’ di tutto, dagli interventi più pittorici a mano libera, alla realizzazione di poster, fino alle installazioni stile “Biancoshock”, un artista concettuale che seguo e che apprezzo molto. In ogni caso, oltre ovviamente a veicolare un messaggio, cerco sempre di aggiungere un po’ di bellezza – se così si può chiamare – o comunque di fare qualcosa per migliorare quei luoghi che ne hanno bisogno. E questo è fondamentale nella mia ricerca artistica.
Come ho detto, il discorso di architettura si lega anche a questo concetto, cioè di guardare la città con occhio migliorativo per provare a realizzare un intervento che non sia fine a se stesso, ma che comprenda più aspetti oltre a quello estetico.
Quando hai iniziato il tuo percorso di street artist, anche tu ti aggiravi incappucciato di notte?
Senza dubbio per i primi tempi è stato così, sia per timore di compiere un’azione non autorizzata, sia perché comunque la notte è più confortevole. È stato un modo per andare alla ricerca di quell’adrenalina che inizialmente serve, ma che poi, crescendo, non ti occorre più perché, personalmente preferisco lavorare alla luce del sole per motivi strettamente tecnici.
Abbiamo constatato che le tue opere sono sempre eseguite su superfici “discrete”, evidentemente non hai intenzione di creare danni agli edifici. Ti ritieni uno street artist rispettoso?
Uno dei pochi obiettivi che mi do è quello di non peggiorare certe situazioni o di non imporre il mio ego. Anche se avessi una bella idea che dovesse trovare spazio sulla superficie di un certo valore, ci rinuncerei. Penso che per abbellire si debba intervenire in maniera progettuale ben definita. La parete “dipinta di fresco” di un edificio appena ristrutturato non mi interessa.
Come reagiscono le persone che ti vedono al lavoro con le tue bombolette, si informano su cosa stai facendo, o se sei autorizzato?
Sinceramente non mi è mai capitato, anzi, una cosa che ho notato è che in generale restano indifferenti. È difficile che qualcuno si fermi e mi chieda spiegazioni. Chiaramente bisogna considerare il contesto, la superficie su cui si intende intervenire. Se dovesse trattarsi di una parete importante – cosa che, come detto, non farei mai – giustamente qualcuno potrebbe avere da ridire; ma se scelgo un muro insignificante, mi sentirei di poter rispondere che, in fondo, sto solamente cercando di abbellirlo.
Molte città si fregiano del proprio patrimonio di arte di strada. Ad esempio Pisa, per rimanere in Toscana, che possiede l’ultimo murale di Keith Haring. Da qui l’idea di richiamare artisti di ultima generazione per migliorare alcuni quartieri cittadini.
A mio avviso questo genere di arte non può precludere dalla spontaneità dell’atto fatto sul momento, cioè non per forza è sempre necessario ottenere le autorizzazioni per agire e realizzare ciò che hai pensato o progettato… La vera street art rimane comunque quella che si fa in maniera impulsiva, libera. L’importante è non esagerare e la tua coscienza resta pulita. Tutto il resto è a proprio rischio e pericolo.
Secondo il tuo punto di vista, di un’opera d’arte è più importante l’idea o la tecnica di realizzazione?
Mi definisco un artista che ha poca tecnica, sebbene l’abbia fatta studiata e ora la padroneggi; quindi per me l’idea è fondamentale. Considerando l’epoca in cui siamo entrati (mi riferisco all’Intelligenza Artificiale con cui ormai si fa tutto) l’idea è l’unica cosa che per ora non ci toglie nessuno.
Fin dove è arrivato il tuo “raggio d’azione”, dove ti sei spinto per lasciare una traccia di te e del tuo lavoro?
Alcuni dei miei lavori sono andati perduti, comunque sia ovviamente nelle zone limitrofe della mia città, poi Firenze, Bologna… restando sempre all’interno del nostro confine nazionale. Tuttavia il progetto intitolato “Non sono un murales, segni di comunità” mi ha portato una discreta visibilità. È stato un incarico commissionato da ACRI, l’associazione che riunisce le fondazioni bancarie, che scelse il mio lavoro – una signora che allaccia le scarpe a un bambino – per elaborare un soggetto che potesse rappresentare la dedizione. Sul sito ufficiale del progetto si possono leggere le info, visionare le foto dell’evento e la mappa con tutti i luoghi in cui sono stati realizzati i lavori.
Un evento diffuso in centoventi luoghi d’Italia a cui hanno partecipato un migliaio di persone tra bambini, ragazzi, artisti, insegnanti, detenuti, persone disabili e migranti che, attraverso percorsi guidati, hanno realizzato murales (talvolta anche molto grandi) su scuole, ludoteche, strutture sociali e centri di aggregazione presenti in quartieri difficili, su beni confiscati alla criminalità (anche sulle vele delle barche sottratte a malavitosi) e poi riconvertiti reinterpretando il mio stencil.
Lo scopo è stato quello di trasmettere un messaggio comune che potesse essere riprodotto anche da altre persone: sono venuti fuori elaborati molto interessanti. È stato il lavoro più importante al quale ho partecipato negli ultimi anni, davvero una bella cosa soprattutto per il valore dell’intento sociale che c’era dietro.
Grazie a questo evento hai avuto l’opportunità di connetterti con migliaia di giovani. Se dovessi essere chiamato a ripetere un’esperienza di tale risonanza, coglieresti più l’occasione di trasmettere loro un ammonimento, riguardo alcuni comportamenti negativi che caratterizzano le nuove generazioni, o un incoraggiamento per il futuro che gli si prospetta?
Premetto che amo stare con i giovani; mi capita spesso di realizzare laboratori artistici e devo dire che ne esco sempre piacevolmente stupito e arricchito emotivamente. Credo che i ragazzi debbano essere ascoltati e sono convinto che i disagi delle nuove generazioni in gran parte siano causa nostra. Proprio per questo motivo quando propongo la mia arte non cerco di farlo con l’intento di insegnare, tanto meno con quello di ammonire.
Si tende a pensare all’artista come saggio o portatore di verità ma, come ho cercato di far capire con quanto detto finora, non mi sento di rientrare in questa categoria. Cerco di utilizzare la mia arte come veicolo per poter entrare in contatto coi loro mondi che sono spesso ricchi di spunti e di nuovi orizzonti. In sostanza, soprattutto nei contesti rivolti ai giovani, lo stimolo è quello di proporre qualcosa che porti in sé piccole domande e mai risposte banali.
Qual è il problema sociale per il quale ti batti maggiormente? Quale il tema che ti sta più a cuore per il quale non ti sembra di fare abbastanza?
È difficile riassumerlo in uno soltanto, ma quello in cui mi sono più spesso imbattuto è il tema del lavoro, sia dal punto di vista personale – perché sono in un momento in cui rifletto sulla mia condizione lavorativa – che su tutto ciò che vi gira attorno: la serietà dell’offerta, le condizioni, la sicurezza… Le idee possono spesso venirmi dopo che ho parlato, discusso o approfondito determinati temi. Sono innamorato delle persone in generale, quindi a me piace che tante cose vengano anche dalle parole degli altri e non per forza essere una mia interpretazione.
Vorremmo allora farti una richiesta: potresti dedicare uno dei tuoi prossimi progetti al rispetto verso gli animali? Per esempio riguardo le condizioni all’interno degli allevamenti intensivi, nei circhi, nei laboratori…
Lo trovo molto stimolante, ci rifletterò su! È un soggetto a cui tengo molto anche io e al quale presto mi dedicherò!