Intervista a Matteo Carlomusto, lo stilista laziale di base a Firenze che ha vestito celebrità della musica italiana come Ghali, Myss Keta, Achille Lauro, Damiano dei Måleskin o Blanco e personalità della scena drag queen a livello internazionale. FUL è stato ospite del backstage di “Porn Couture”.
Domenica 14 aprile, al CSA Next Emerson, ha avuto luogo la prima sfilata a Firenze del giovane e talentuoso stilista queer Matteo Carlomusto, un evento organizzato dal collettivo Le Perrass. Matteo ci ha concesso di documentare con gli scatti di Kristinn Kis il backstage della collezione Porn Couture e, con l’occasione della pubblicazione delle foto, l’ho intervistato per farlo conoscere meglio ai lettori di FUL.
Matteo, quali sono i tuoi studi e quando ti sei avvicinato al mondo della moda?
Sono originario della Ciociaria e nel 2012, a 19 anni, mi sono trasferito a Firenze per seguire i corsi dell’Accademia Italiana, da cui ero stato colpito dal programma di studi. Qui mi sono diplomato in fashion design nel 2015. Come lavoro finale ho presentato una collezione che fece un certo scalpore nel nostro ambiente. Proposi infatti un progetto di rivisitazione del burqa in chiave maschile, come forma di protesta contro una cultura che – pur affascinandomi a livello estetico – mi rattristava dal punto di vista etico e sociale.
Era quindi una rivisitazione della costrizione che l’uomo impone alla donna. All’epoca pensavo che mi sarei specializzato nella moda maschile, salvo poi capire che mi interessava la “moda in sé e basta”.
La moda maschile, o femminile, per me hanno la sola differenza del cartamodello – per quanto si possa scegliere di fare lo stilista senza distinzione di genere, poi quando si va a vestire i corpi sono diversi! – perché di base i miei vestiti sono rivolti a chiunque.
La tua ultima collezione, “Porn Couture”, vuole denunciare la censura. Svela quello che solitamente è coperto e copre quello che solitamente è svelato del corpo.
Questo è stato un passaggio dovuto al fatto che mi piace lavorare sui “tabù”. La mia prima vera collezione nel 2017 è stata presentata nell’ambito di una produzione del Berghain di Berlino e lì ho ripreso la vecchia collezione di cinque outfit, prodotta ai tempi dell’Accademia, per dargli un’altra visione con un restyling. Poi ho aggiunto altri undici capi e creato una nuova collezione in cui ho toccato il tema del fetish. È sempre stato un percorso molto naturale per me… l’Islam, il fetish, la cultura no gender… E eccomi a questo punto!
Da allora ogni anno ho presentato collezioni in giro per l’Europa e sono arrivato a lavorare su Porn Couture. Come tutti, chiamavo le mie collezioni Fall-Winter o Spring-Summer ma, dopo la pandemia, ho smesso di lavorare sulle “stagioni” per concentrarmi sul “progetto”. Non è quindi una collezione che inizia e finisce ma che anzi posso sempre implementare.
Nella sfilata a cui voi di FUL avete assistito al CSA Next-Emerson non ho presentato inediti, era una raccolta di vestiti prodotti su quel progetto negli ultimi anni.
Si è trattato quindi di una sfilata di capi sotto il titolo Porn Couture con il concetto che dicevi tu: andare a scoprire parti del corpo che tendenzialmente andiamo a coprire – pescando a piene mani nell’immaginario del fetish, del bondage, delle pin-up o della comunità BDSM – per arrivare a un risultato finale che fa la somma di tutto ciò però in chiave fashion. È una collezione fetish, certo, ma non per le pratiche del sesso.
Il fetish è ormai totalmente sdoganato ed è passato dai club alle passerelle. Quindi è ormai totalmente mainstream?
Il fetish è diventato mainstream perché, come molte altre subculture, è stato preso e riappropriato. Quando qualcosa diventa un trend ecco che chiunque sente la necessità di trattare il tema. Nel mio caso, per quanto si tratti di una ispirazione, fa parte di quello che sono io, della comunità in cui vivo, cioè ho preso con rispetto una parte della mia vita e l’ho portata nel lavoro in chiave moda.
Da anni lavoro con il vinile, a differenza del latex, perchè è un materiale che si può cucire e pure rimanda all’immaginario fetish.
Ha un significato oggi parlare di moda “queer”?
Non esiste una moda queer, bensì esiste un’etica queer nella quale dei designer si identificano. Personalmente identifico per moda queer chi attraverso i propri lavori si rivolge a una fetta di pubblico che ricerca una certa vestibilità.
Queer non è un termine “ombrello”, per fare prima a dire LGBTQIA+, significa un’etica di vita che vuole ristabilire il concetto di “normalità”. Io mi permetto di definire il mio brand queer perché di base sono una persona queer e i miei vestiti non hanno un genere imposto.
Poi, soprattutto, c’è un aspetto di vestibilità. Alla sfilata di Firenze non ho voluto strumentalizzare i corpi, ma ho scelto dei modelli che sfilassero in base alle loro storie.
Questo per me ha molto valore, poiché partecipare a un evento in cui “il corpo” è il tema principale non lo si fa andando a prendere fisicità diverse, ma andando a prendere “persone” e basta, oltre gli stereotipi.
In bocca al lupo Matteo per i tuoi progetti futuri e grazie ancora per averci fatto accedere al backstage della sfilata!
Foto: ©Kristinn Kis