Stefano Ferri, crossdresser: intervista al manager in gonna e tacchi

stefano ferri crossdresser

Stefano Ferri, crossdresser, manager, PR, marito e padre in gonna e tacchi: l’abbiamo intervistato in occasione della presentazione del suo libro Crossdresser giovedì 27 luglio all’Hotel Mercure Firenze Centro.

Stefano Ferri, in occasione della presentazione del suo libro Crossdresser parto proprio col chiederle di cosa parla?

Il libro parla di me e della mia vita che è solo una piccola goccia nell’oceano, una vita individuale ma per questo anche incontrovertibile. È come se mi fossi messo davanti all’arazzo della mia vita e avessi estratto il filo rosso dell’essere crossdresser, fatto di cui il libro vuole essere una testimonianza. Essere crossdresser significa vestirsi con capi d’abbigliamento riservati al sesso opposto al proprio, e per questo è una condizione prettamente maschile: non ci sono donne crossdresser, perché alle donne è permesso tutto. Come le donne possono scegliere tra tacchi e mocassini, io voglio la stessa opportunità.

Da dove nasce l’esigenza di raccontare questa storia?

In tante persone me l’hanno chiesto, per tante volte, e io ho sempre risposto di no perché non avevo tempo e in parte era vero ma in parte era anche una scusa. Scrivere una biografia mi sembrava un atto troppo arrogante e avevo paura di essere troppo autoindulgente. Credo nell’obiettività e avalutatività e come chiunque altro, neppure io sono un santo e per mettere nella giusta luce il sessismo e il razzismo che ho subito come i crimini che sono, dovevo raccontare tutta la storia, comprese le mie “mascalzonate”. Per cui ho sempre rimandato; poi quando c’è stata la pandemia, io che lavoro nel turismo e negli eventi, mi sono ritrovato totalmente senza lavoro. In quella situazione sono riuscito a trovare l’atteggiamento giusto per scrivere, le condizioni psicologiche adeguate, e ancora oggi, rileggendolo, sento le tracce della rabbia che provavo in quel momento. All’inizio ho scritto una sola pagina, che non doveva avere seguito, era solo un mio personale sfogo. Poi, rileggendo ciò che avevo scritto mi sono accorto che mi piaceva e ho continuato pagina dopo pagina, giorno dopo giorno. Alla fine è diventato il libro che tutti mi chiedevano di scrivere.  

Qual è la differenza tra crossdressing e travestimento?

Sono termini spesso confusi e la parola “crossdresser” viene erroneamente tradotta come “travestito” nella maggior parte dei casi, ma sono cose molto diverse. Quello di carnevale è un travestimento, è l’interpretazione di un ruolo non suo. Ma il crossdressing è in realtà il bisogno di indossare ciò che veramente vogliamo e che rispecchia chi siamo. Purtroppo il termine in sé e per sé è un’etichetta che serve per indicare un’anormalità statistica, quella di essere uomo e vestirsi con indumenti femminili. È l’illegittimità che viene ancora legata a questo concetto che genera il bisogno di una definizione, di un’etichetta

Com’è arrivato a capire ed accettare il suo bisogno di indossare abiti femminili?

La prima pulsione verso un abbigliamento femminile l’ho avuta a 9 anni, nel 1975. Il mondo allora era ben diverso, pensi che fino all’anno prima il crossdressing era illegale, era una cosa per cui si finiva in carcere! Forse anche per questo dai 9 ai 29 anni ho represso questo bisogno di indossare abiti femminili e così facendo sono arrivato ad odiare le donne; le invidiavo perché erano libere di indossare quello che io non potevo. Questo mi portò a trovarmi da solo, a perdere il lavoro, a sentirmi perso e senza progetti. Così, nella mia solitudine e quasi inconsciamente cominciai gradualmente ad effemminare il mio guardaroba, in un processo lungo 14 anni. Oggi forse sarebbe stato più facile, la grammatica dei sentimenti e dell’inclusione è cambiata, penso a Mahmood che ha vinto Sanremo presentandosi sul palco in gonna. Io invece ho iniziato seguendo la moda del tempo, che nella seconda metà degli anni Novanta proponeva un’immagine maschile molto effemminata. Quello è stato il trampolino che mi ha permesso di superare il mio limite verso la gonna: la prima fu un kilt che aveva di maschile solo la definizione, ma era a tutti gli effetti una gonna. Ai 43 anni, nel 2009, l’anno in cui è nata mia figlia, non avevo più nulla di maschile nel guardaroba. Ora da più di un anno c’è una stilista che mi fa gli abiti su misura, quindi a dire il vero non sono nemmeno più un crossdresser.

Com’è vissuto da sua figlia avere un padre crossdresser?

Non se ne accorge nemmeno, come nessuno dei suoi coetanei. Credo che alla generazione di mia figlia non interessi, non hanno i pregiudizi che esistevano prima. Gli adolescenti di oggi sono cresciuti con internet e i social e hanno avuto una finestra sul mondo gigante, con tutta la comprensione della diveristà che ne deriva.

Le è mai capitato di avere la sensazione di essere preso poco sul serio nell’ambito lavorativo per il fatto di indossare abiti femminili?

Dirigevo un giornale e ho dovuto dare le dimissioni, quindi assolutamente sì. Però il crossdressing ma mi ha anche aiutato a trovare la mia vera vocazione, quella del PR e mi ha dato una notorietà che mi ha favorito in tanta parte del mio lavoro.

Quanto è comune confondere il concetto di crossdresser e quello di omosessualità?

È molto comune, proprio per tutto quel retaggio di preconcetti di cui abbiamo parlato. Per 4000 anni gli uomini hanno indossato gonne e non per questo erano tutti omosessuali, così come le donne in pantaloni non sono tutte lesbiche e gli uomini in pantaloni non sono tutti eterosessuali.

Essere crossdresser è solo il suo modo di essere felice o si lega a una battaglia per rendere evidente agli occhi di tutti un concetto?

Semplicemente sono io, poi ci sono i significati politici che vi si legano ma è una cosa che io subisco mio malgrado. Ma mi rendo conto che questo mio modo di essere serve per dare coraggio: suoi social mi scrivono in tanti per dirmi che li ho aiutati

Credo che essere felici richieda sforzi e coraggio. Nel suo caso uno sfrontato coraggio. Crede che in qualche modo possa essere d’aiuto a chi, per paura, rinuncia a essere felice, che si tratti di lavoro, famiglia, amore o del proprio modo di essere?

Ennio Flaiano ha detto che “Per essere felici bisognerebbe desiderare ciò che si ha” che trovo un’affermazione molto intelligente perché avere è uno stato, desiderare invece è un processo, qualcosa di dinamico e questo è fondamentale perché la felicità è un percorso a tappe. La prima consiste nel capire cosa si vuole, la seconda nel procurarselo e una volta che ce l’hai arriva la terza e più importante: continuare a desiderarlo. Io comunico felicità indossando i miei vestiti perché indossarli ma fa felice. Quindi sì, benché involontariamente la mia testimonianza è qualcosa che va oltre il crossdressing.

La presentazione di Crossdresser, alla presenza dell’autore, si svolgerà giovedì 27 luglio alle ore 18:30 all’Hotel Mercure Firenze Centro, in Via Nazionale, 21/23, Firenze.

La capienza è per 25-30 persone, per prenotare potete contattare i seguenti recapiti H9131-am@accor.com o telefonare allo 055 5300700.