Non è polemica, né rovinare la festa a qualcuno. Semplice verità e constatazione dei fatti. Il primo maggio del 2021 il mondo del lavoro si divide in due fasce: precari e depressi. Lo dicono i dati del momento: il tasso di disoccupazione in Italia nel 2021 è pari al 36% con un proporzionale aumento di casi di depressione che solo nella nostra regione, – secondo quanto riportato dall’Asl della Regione Toscana – salgono al 10% per le sole richieste di consulenza.
Siamo i lavoratori della Yolo economy che soffrono di burnout e di languishing (termine in cui si categorizza il sentimento di apatia generale senza prospettive di futuro). Termini entrati nella nostra quotidianità che diventeranno argomenti all’ordine del giorno quando la pandemia sarà finita. Secondo Dan Shaebell, CEO di Workplace Intelligence: “la salute mentale è il più grande problema delle forze lavoro del nostro tempo e lo sarà per i prossimi dieci anni”.
Più precari e depressi: intervista a Matteo Marini
Abbiamo deciso così di fare una chiacchierata con Matteo Marini, docente universitario per le competenze trasversali e consulente e formatore in diverse aziende toscane nel settore delle counseling, del benessere organizzativo e dello stress.
La pandemia ha davvero così tanto influito nel benessere psico-fisico e psico emotivo dei lavoratori?
Assolutamente si. Questa pandemia ha generato un senso di instabilità profondo configurandosi proprio come trauma. Gli effetti di questa situazione sono – appunto – traumatici dando i sintomi del trauma come la perdita del sonno e innalzamento dei livelli di ansia. È un trauma a tutti gli effetti ed è un trauma ripetuto. Lo è stato dagli inizi quando l’anno scorso la pandemia ha influito al cambiamento del nostro stile di vita. Poi, altri traumi sono pervenuti con le immagini dei media e le foto dei morti, la sfilata dei carri funebri a Bergamo con il numero dei contagi giorno per giorno. Ma è stato un trauma anche per chi è stato contagiato, perché bisogna ricordare che il 5% degli italiani ha contratto il Covid. Quindi è una situazione in cui il trama non è inteso come unico evento come può essere per un terremoto, ma è una serie di eventi progressivi che hanno generato un’instabilità generale come ad esempio la perdita del lavoro, se non il proprio, quello di un partner. O, se lo vogliamo dire, anche lo smart working: essere presenti in quattro all’interno della casa con i figli in DAD, possono anche questi essere considerati come eventi traumatici.
Ecco, proprio riguardo lo smart working da alcuni sondaggi viene riportato che questa sia una tipologia di lavoro con una minore influenza negativa sulla salute psicologica rispetto a chi lavora in presenza…
Diciamo che lo smart working è “il male minore” perché chi ha sofferto di più è chi è ha rischiato la propria salute e vita senza aver avuto sicurezze iniziali, mettendo a repentaglio anche la vita di chi gli stava attorno. Quello sicuramente ha prodotto maggiore stress. Ma anche lo smart working – che è fondamentale e al momento essenziale – ha un costo: il costo è l’isolamento e i problemi psicologici che scaturiscono da questo. Noi, in quanto uomini, siamo degli animali sociali.
I problemi psicologici più comuni?
Da un punto di visto psicologico l’insonnia è il primo. Poi innalzamento soglia di ansia, attacchi di panico, comportamenti aggressivi, rimuginazione e mancanza di progettualità.
Concorda anche lei sul fatto che la salute mentale è e sarà il più grande problema della forza lavoro?
Assolutamente sì. Non posso dare delle stime in termini di anni, ma posso sicuramente dire che l’incidenza dell’effetto traumatico dovuto alla pandemia è solo agli inizi. Il nostro cervello comincia a macinare durante il problema ma soprattutto quando il problema è finito. La psiche non si interrompe quando finisce il problema.
Le figure professionali più colpite?
Sono sicuramente i precari, quindi coloro che hanno l’instabilità del perdere il lavoro. Poi, sicuramente, la categoria più colpita è chi si occupa di management con problemi legati ad matrice organizzativa: le aziende hanno dovuto riadattare tutti i propri protocolli e questo porta dei gravi scompensi dovuti all’instabilità e ansia e stress nel non sapere gestire le cose.
Ci sono strategie da adottare o delle metodologie per contrastare i problemi di salute mentale nell’ambito lavorativo?
Il primo è sicuramente la psicoeducazione, quindi educare i componenti all’interno di un’azienda a quelli che sono gli effetti e i primi sintomi dal punto di vista di problemi psicologici. Il secondo, per chi li ha, è non aspettarsi che questi finiscono, perché potrebbero non finire e quindi è necessario chiedere aiuto. Questo aiuto non è quasi mai all’interno dell’azienda ma sempre all’esterno. Purtroppo è difficile trovare aziende che abbiano uno psicologo. C’è poca cultura del benessere psicologico. Lo psicologo è più solito nelle aziende ospedaliere, nelle scuole superiori o nelle RSA, quindi si pensa che questo ruolo sia necessario solo per le categorie di persone considerate più fragili. Terzo, riprendere la vita normale e riprendere in mano i vecchi interessi. Non cedere alla voglia di rimanere a casa.
Come possiamo capire quando dobbiamo chiedere aiuto?
Quando cominciano ad impattare sulla nostra vita: quando diventano frequenti, quando non riusciamo a fare qualcosa che prima facevamo. L’aspettare e l’attesa che la situazione precipiti è la cosa più sconsigliata. Bisogna bloccare i sintomi sul nascere.
Tre consigli pratici per chi soffre di questi disturbi:
Imparare a riconoscere i sintomi, chiedere aiuto e fare attività fisica.
CC Immagine di copertina: «Le départ», un’opera di Levalet.