Guerra Israele – Hamas: i 5 punti della guerra che sta sconvolgendo il mondo

Quali prospettive del conflitto? Dall’ipotesi di divisione della Striscia tra Israele, ANP e lo spettro di un’espulsione dei rifugiati palestinesi. Abbiamo messo in fila due testimonianze audio dalla zona di assedio e cinque punti salienti del conflitto che coinvolge Israele, Gaza e Cisgiordania: comunque vada a finire sembra sia il punto di non ritorno per l’intera regione.

“I bombardamenti colpiranno chi sopravviverà”, mi ha detto Mohammed, un uomo palestinese cresciuto a Gaza City. A un mese dall’inizio della rappresaglia di Israele contro Hamas per le azioni terroristiche del 7 ottobre, la sensazione è che tanto più violente continueranno ad essere le operazioni militari israeliane contro i civili palestinesi, quanto più verrà alimentata la loro rabbia.

A radicalizzarsi saranno le comunità più vulnerabili della popolazione, quelle che già ora sono sotto “una valanga di sofferenza umana” –  per usare le parole del Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. 

1. La seconda fase della guerra: verso Gaza City.

L’invasione militare via terra nella Striscia è ufficialmente iniziata il 27 ottobre. Due settimane prima, le Forze di difesa israeliane (Idf) avevano emesso un ordine di evacuazione chiedendo a oltre un milione di palestinesi del nord della Striscia, compresa Gaza City, di spostarsi a sud di Wadi Gaza entro 24 ore. Ne sono risultati 700mila sfollati interni, una possibile accusa per Israele di violazione del diritto internazionale per il trasferimento forzato della popolazione civile e un terreno più facile da penetrare per le Idf. 

I bombardamenti dell’aviazione israeliana (Iaf) hanno fatto il resto, neutralizzando “target militari” dentro ospedali, chiese, scuole e moschee. La fanteria, supportata dall’Iaf, ha eseguito delle incursioni nella Striscia di Gaza entrando da nord e dal centro e arrivando in pochi giorni ad accerchiare Gaza City. 

È possibile inoltre che, all’aumentare della violenza indiscriminata sui civili, a crescere possa essere non solo la rabbia dei palestinesi, ma anche il disaccordo e la condanna della comunità internazionale e, più in generale, del mondo occidentale, verso la sproporzionalità e l’asimmetria della risposta israeliana alle azioni terroristiche di Hamas. 

“Siamo persone con disabilità – mi è arrivata la testimonianza audio da Ahlam il 22 ottobre alle ore 20:10 – Oltre al fatto che c’è la guerra, abbiamo bisogni specifici, bisogno di medicine, e di altre cose che per noi sono essenziali. Ma purtroppo, chi riesce a garantirci le cose di cui abbiamo bisogno durante una guerra? Stiamo vivendo sotto assedio, in mezzo alla distruzione, viviamo la morte, abbiate pietà di noi!”.

2. L’isolamento di Gaza.

L’invasione delle Idf nella Striscia è stata seguita da una intermittente interruzione delle comunicazioni e dei collegamenti via internet. Come se l’occupazione militare, l’embargo e il più recente assedio totale non bastassero, Gaza è rimasta ancor più isolata dal resto del mondo e questo ha gettato molte ombre sull’operato dell’esercito israeliano e sui possibili crimini perpetrati all’interno della Striscia. Israele rischia di perdere il sostegno incondizionato dei suoi alleati.

“Abbiamo paura persino dell’arrivo della notte, ci preoccupiamo tantissimo quando arriva il buio- ancora la testimonianza audio da Ahlam del 22 ottobre alle ore 20:30  –  Tutte le persone aspettano la notte così si riposano e dormono, invece noi abbiamo paura, abbiamo paura di perdere i nostri cari. Non riusciamo a dormire, rimaniamo tutti abbracciati” .

3. I silenzi strategici di Mahmud Abbas.

Nell’incontro con il segretario di Stato americano, Antony Blinken, che si è tenuto a Ramallah domenica 5 novembre, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (l’Anp), Mahmud Abbas, ha dichiarato che “l’Autorità accetta di riprendere la piena responsabilità su Gaza, in una soluzione complessiva per la Cisgiordania e Gerusalemme Est”. 

Questa dichiarazione chiarisce il vero motivo dell’assenza di Mahmoud Abbas nel corso di queste settimane. Non tanto, o non solo, la sua inadeguatezza, e negligenza, rispetto all’incarico che ricopre e allla causa palestinese, ma il perseguimento di una strategia, quella del basso profilo, che con il favore americano, potrebbe riportarlo a Gaza, da dove Hamas lo aveva estromesso nel 2007, a seguito di una breve guerra civile con Fatah, il partito politico di cui Abbas è leader. 

L’opzione del ritorno sembra però molto lontana dalla realtà. Abu Mazen – e per estensione la sua Anp- ha perso qualsiasi possibilità di consenso e credibilità già da molti anni nella Cisgiordania occupata, dove, vale la pena ricordarlo, nel 2021 aveva indetto delle elezioni poi cancellate per il timore che vincesse Hamas. 

4. Il rischio di campi profughi palestinesi nel Sinai.

Più passano i giorni, più aumentano i timori degli sfollati palestinesi di non poter fare ritorno alle città da cui sono stati evacuati e che il vero scopo dell’offensiva israeliana sia lo spopolamento di Gaza e l’annessione di parte del suo territorio allo Stato di Israele.

Il quotidiano israliano Ynet, in un articolo del 31 ottobre, riporta che Israele starebbe facendo pressione sui suoi alleati internazionali e cercando il loro sostegno per convincere il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ad accogliere i rifugiati palestinesi nel Sinai “in cambio della cancellazione di una parte consistente del debito pubblico dell’Egitto”. 

Come confermato anche sul New York Times, il 13 ottobre, il Ministero dell’Intelligence di Israele ha emesso un documento – poi definito una ‘bozza preliminare’ – in cui raccomanda l’evacuazione della popolazione civile dalla Striscia di Gaza al Sinai. 

Pubblicamente al Sisi ha rifiutato l’accettazione o qualsiasi piano di ricollocamento dei rifugiati palestinesi nel Sinai ritenendola “una liquidazione finale della causa palestinese” (NYT) e invitando, semmai, Netanyahu a pensare al deserto del Negev come possibile destinazione degli sfollati. 

5.  Se il fanatismo religioso contagia il governo di Israele.

La maggior parte della popolazione palestinese della Striscia ha lo status di rifugiato, che vuol dire che i loro nonni o genitori erano rifugiati o loro stessi lo sono diventati nel corso delle ultime guerre ed operazioni militari. Il peggior timore di queste persone è trovarsi ad affrontare una nuova Nakba, la catastrofe per cui 750mila palestinesi furono costretti ad abbandonare le loro case, le loro vite, durante la guerra del 1948, con la promessa di un diritto al ritorno che non è mai stato garantito. 

Timori che trovano fondamento anche nelle dichiarazioni di certi esponenti della destra israeliana. Ariel Kallner, parlamentare del Likud (il partito di Netanyahu) in un post su X del 7 ottobre, scriveva: “Al momento, un unico obiettivo: Nakba!” invocando ad una nuova catastrofe, che per dimensioni, oscurerebbe quella originaria del 1948… 

*Maria Selene Clemente è una giornalista toscana che ha vissuto per sei anni tra Cisgiordania e Gerusalemme Est.

Foto tratte dalle manifestazioni di Firenze e Roma: ©Clemente-Pardini