Firenze, 1503, Palazzo Vecchio, due uomini, due geni, l’uno di fronte all’altro, si stanno preparando per intraprendere la sfida più incredibile dell’intera storia dell’arte. Il gonfaloniere a vita della neo-nata Repubblica di Firenze, incarica i due più illustri pittori della città, di affrescare le pareti opposte di una sala del palazzo del governo: il “salone dei 500”. La parete rivolta ad ovest sarà dipinta da Michelangelo Buonarroti, quella che guarda verso est, sarà il palcoscenico di Leonardo Da Vinci.
I due maestri stanno per affrontarsi in una partita di colori e pennelli, di disegni e ritratti, di figure e paesaggi: dovranno rappresentare due gloriose battaglie, per celebrare la grandezza della Repubblica di Firenze.
Michelangelo si appresta a raffigurare le cruente scene del successo militare a Cascina, Leonardo, sta per immortalare la “battaglia di Anghiari”.
Servono poco più di due anni perché tutto sia pronto per dare inizio allo spettacolo, Michelangelo ha imbastito il cartone preparatorio, Leonardo si è cimentato in antichi trattati di pittura per raggiungere una tecnica che lascerà tutti a bocca aperta.
Giugno 1505, Leonardo Da Vinci annota su di un taccuino il momento in cui si prepara a dare la prima pennellata:
“A.D. 6 giugno 1505, in venerdì, al tocco delle tredici ore, cominciai a colorire il palazzo. Nel qual punto di posare il pennello, si guastò il tempo, il cartone si stracciò, l’acqua si versò, e ruppesi il vaso dell’acqua che si portava, e subito si guastò il tempo, e piovve insino a sera acqua grandissima, e stette il tempo come di notte.”
Un temporale devastante bloccò e rallentò i lavori all’interno del palazzo, come se il destino non sopportasse tale infinita grandezza; alcuni lavori da compiere nella sala dilatarono i tempi e Michelangelo fu convocato d’urgenza a Roma, da Papa Giulio II in persona, che lo investì come l’artista ufficiale della Corte Vaticana.
Ma Leonardo non rinunciò all’esecuzione di quello, che secondo i suoi piani, sarebbe stato il suo capolavoro supremo e, nonostante la sfida fosse ormai svanita, lui lottò contro le leggi della natura, realizzando un miracolo.
Il progetto del Da Vinci era quello di superare la tecnica dell’affresco, creando una pittura muraria, che simulasse l’effetto del marmo, liscia e lucida, esattamente come gli antichi ritrovamenti pittorici romani, che aveva ammirato a Pompei. Per questo iniziò a spulciare senza sosta manuali d’arte romana, fino a che non s’imbatté in un trattato di Plinio il Vecchio, in cui si spiegavano le composizioni dei colori e le modalità di asciugatura.
Ciò che ingannò il maestro fiorentino, fu la sensazione che provò nel toccare i magnificenti resti dell’impero, il colore appariva così liscio ed uniforme per la fossilizzazione, a causa degli agenti atmosferici, che nei millenni, avevano creato una sorta di patina sui dipinti. Per cui, agli intrugli consigliati dal saggio Plinio, aggiunse sostanze, a suo parere ancor più adatte a conferire, al suo capolavoro, la consistenza che ricercava: olio di lino crudo mischiato a cera, un errore fatale.
Terminato il lavoro, con grande sconforto del maestro, la pittura non voleva saperne di asciugare; disperato, Leonardo accese dei grandi bracieri, che fece posizionare dai suoi assistenti, ma il risultato fu un mezzo disastro. Le pareti iniziarono a colare, le parti esterne dell’opera si sciolsero come ghiaccio bollente ed in pochi istanti, rimase solo il nucleo centrale del disegno.
Solo il nucleo centrale, come se quei pochissimi metri di splendore, non bastassero per consacrare quell’errore come il più grande manifesto dell’arte di tutti i tempi.
E non possiamo dirlo certo noi, che non abbiamo visto niente di più di alcune copie, che ancora ci chiediamo se questo affresco sia realtà o leggenda: possiamo soltanto affidarci alle parole degli uomini del tempo.
Benvenuto Cellini definì la Battaglia di Anghiari di Leonardo Da Vinci, all’interno del salone dei 500, come “la scuola del mondo”.
Nel 1549 Anton Francesco Doni, dotto storico dell’epoca scrisse:
“Salite le scale della grande sala, diligentemente date una visita ad un gruppo di cavalli ed uomini che vi parrà una cosa miracolosa.”Numerosi artisti giunsero a Firenze per copiare quest’opera: un avvinghiamento di figure umane ed animali perfettamente riprodotte in un concerto di passioni che s’intrecciano, crude e bestiali.
La “brutal follia”, quel groviglio di sentimenti ed emozioni che si scatenano tra le rughe di volti inumani, gonfi di rabbia e rancore, distorti dal risentimento, snaturati dalla violenza, solcati dalla sete di vendetta.
Tutto questo, per Leonardo, era la guerra, e l’ha rappresentata come nessuno mai prima di lui, immortalando l’attimo della pazzia cruenta di cervelli che s’inceppano, schiavi della sete di sangue.
Gli occhi sgranati, le bocche spalancate, i muscoli del corpo tesi fino ad atrofizzarsi in pose animalesche, lance che infilzano la carne del nemico, spade sguainate, scudi trafitti: il terrore dipinto sul volto dei cavalli è il messaggio che il maestro scaglia all’umanità, bruta e folle, capace di compiere atrocità senza limiti. Le numerose copie sparse per il mondo, ci danno forse solo la minima idea dello splendore di fronte a cui si trovarono coloro che riuscirono a vedere questo capolavoro dal vivo, prima che la storia lo celasse, forse, per sempre.
1555, Firenze, Palazzo Vecchio, Cosimo I De’ Medici convoca nel salone dei 500 un personaggio incredibile: è un erudito, uno storico, ha studiato e raccontato le imprese meravigliose dei protagonisti del Rinascimento, ma è anche un architetto mirabile e, soprattutto, un pittore sublime. Cosimo I De’ Medici convoca nelle sue stanze Giorgio Vasari per affidargli un compito particolare: la Signoria è tornata al potere a Firenze, la Repubblica è stata sconfitta ed il vessillo dei Medici è tornato a dominare le vie e le piazze della città; Palazzo Vecchio è la sede governativa ufficiale, nella sua sala principale non possono esserci inni e tributi all’odiata Repubblica.
Con immenso rammarico Cosimo I, grande appassionato di Leonardo Da Vinci, chiede al Vasari di coprire ciò che era rimasto della Battaglia di Anghiari ed affrescare anche la parete opposta, celebrando le gesta della famiglia Medici. Fu un onore per Giorgio Vasari, ricevere tale importante incarico, ma nello stesso tempo ebbe uno spiacevole tuffo al cuore: lui, massimo esperto e conoscitore del maestro Leonardo, colui che ne aveva decantato le gesta, era chiamato ad oscurare uno dei suoi più illustri capolavori.
Fino a qui, il nostro racconto abbracciava l’immensità della storia e la grandezza della storia dell’arte, adesso, da questo momento in poi, ha inizio la leggenda.
Il Vasari ha veramente cancellato la Battaglia di Anghiari?
Non era la prima volta che Giorgio Vasari veniva chiamato a simili compiti, aveva già dovuto celare due opere, nientemeno che di Giotto e Masaccio, anche in tali occasioni, probabilmente per fini politici, si dovevano sostituire i dipinti. Per un personaggio folle d’amore per la storia e per l’arte, questi sono incarichi più dolorosi di un pugnale che trafigge il cuore, scempi nei confronti di mostri sacri della pittura, che non poteva essere certo il suo massimo conoscitore a distruggere.
Per questo Vasari li coprì, mantenendoli intatti: da fine architetto, progettò la costruzione di piccoli muri di fronte alle opere che non ne permettevano la vista ma che ne garantivano la sopravvivenza, affidando alla curiosità e all’intraprendenza dei posteri, il loro ritrovamento.
Secondo voi, cari lettori, un personaggio così arguto e appassionato, così colto e raffinato, poteva adombrare per sempre “la scuola del mondo”?
Il nostro prossimo approfondimento, ci condurrà nel profondo di un’indagine, scaveremo in uno dei misteri più avvincenti di Firenze, alla ricerca del tesoro nascosto più prezioso di tutti i tempi.
Gianluca Parodi
In foto di copertina ricostruzione della battaglia di Anghiari all’interno del museo di Anghiari, fonte
http://www.valtiberinaintoscana.it/anghiari/la-battaglia-di-anghiari