C’è chi cavalca l’onda del successo, uscendo col primo disco prima ancora di aver fatto un concerto dal vivo, e chi questo lo vede invece come un obiettivo, un traguardo che arriva a coronamento di una lunga gavetta sul palco e di un’accurata ricerca musicale.
Questo è il percorso di Vincenzo Di Martino – aka Ninjaz – storico Mc del collettivo toscano Numa Crew, fondato nel 2005 insieme al al produttore/dj T.Kay e al socio Link aka K!dust con il quale ha portato avanti parallelamente fino al 2009, insieme anche a Charlie Dakilo, il progetto ‘La Primiera’ realizzando l’album “Unshittable”.
Dodici anni di attività live, la passione per il Giappone e per la filosofia orientale, che contraddistinguono anche il suo percorso da writer, la vicinanza alle sonorità grime britanniche con le quali si confronta ormai da anni ed ai ritmi Drum’n’bass, si fondono in questo suo disco d’esordio uscito lo scorso 7 dicembre, Showgun, che segna inoltre il debutto dell’etichetta GRIMEIT dedicata ai suoni urbani italiani.
Il lavoro, interamente prodotto da Numa Crew grazie anche al contributo del progetto Toscana 100band promosso dalla Regione Toscana, può vantare inoltre la partnership sulla distribuzione digitale da parte di Hellmuzik, etichetta di bass music lanciata da Hell Raton, già fondatore e CEO di Machete Empire Records. Registrato negli studi Boomker Sound e M8 Music di Firenze, vi compaiono vari featuring tra cui K!Dust, Charlie Dakilo, Ganji Killah e Yodaman.
In questo mondo ‘mordi e fuggi’ dove tutti sono pronti a cavalcare l’onda del successo per ottenere maggiore visibilità, tu hai deciso di andare controcorrente e di arrivare al tuo primo disco dopo un periodo di lunga ed approfondita ricerca musicale, tecnica e metrica, che ti ha portato a questo risultato. Uno stile del tutto nuovo che fonde al suo interno diversi tipi di sonorità, come una sorta di ‘matrioska’ di diversi sound e stili, dal grime, ultima evoluzione della musica urban britannica, all’UK Garage, dalla Drum’n’bass alla dubstep, dal reggae fino alla jungle. Raccontaci il perché di questa scelta e quale e quanto lavoro c’è dietro a ‘Showgun’. Quanto è stata significativa l’esperienza fatta in questi 12 anni sui palchi dal vivo e quanto ha inciso sul risultato finale del tuo album?
“La decisione di andare su queste sonorità non è stata una scelta, ma un continuo fondamentalmente, perché la mia esperienza in gran parte l’ho fatta con Numa Crew e quindi nel campo della bass music, che si porta con sé tutti questi generi che hai appena citato. L’esperienza in questi 12 anni, quasi 13 ormai, sul palcoscenico in un dj set all’inglese con gli Mc, mi ha insegnato tantissimo e ha fatto di me l’Mc che sono adesso. Magari ho aspettato a fare un disco perché non avevo arrivismi, è sempre stata solo una passione. Ultimamente abbiamo capito che invece può anche essere una professione, che abbiamo delle qualità e dobbiamo sfruttarle bene. Fare un disco ci permette di fissare, fare un punto, anche perché poi chi ti vede da fuori non ti vede per quello che sei realmente, ma ti vede per quello che produci e che hai ‘impacchettato’. Altrimenti anche questi 12 anni passati sui palchi rimarrebbero un po’ nell’etere”.
Anche se non mancano momenti di rap più puro, ascoltando il tuo disco si sente la voglia di proporre qualcosa di nuovo da un punto di vista di sonorità, un mix di stili che nasce dopo anni di confronto con le produzioni anglosassoni. Questo tuo ‘guardare oltre’ è mosso unicamente dal voler sperimentare e proporre un sound nuovo o si porta con sé anche una voglia di distaccarsi dal rap tradizionale italiano e americano? Secondo te l’orecchio del pubblico italiano è pronto a questo nuovo ed originale mix di sound diversi che si ispira alle influenze urban anglosassoni?
“Fondamentalmente la sperimentazione e la ricerca hanno sempre fatto parte per me della creazione artistica. Quello che mi interessa è lo studio e la ricerca di nuove cose. In più ho sempre avuto questa cosa di andare controcorrente, è qualcosa più forte di me: ho iniziato a fare i graffiti quando li facevano in pochissimi e, quando è divenuta una moda, mi sono piano piano disinteressato; stessa cosa con l’hip hop, che, quando è diventato una moda, mi sono interessato ad altre sonorità. Quindi sì, mi piace essere così, un po’ borderline. Però penso che questi generi qui, ora come ora, possono attecchire anche in Italia, intendo in maniera mainstream. C’è sempre stato un pubblico di ascoltatori che ci ha seguito, ma sicuramente prima era visto come un genere più di nicchia, mentre adesso con l’avvento della trap questi generi sono stati portati all’orecchio di tutti, ad un orecchio di massa. Magari ha spianato la strada anche a noi, perché no… speriamo”!
L’album ‘Showgun’, gioco di parole che parte dalla parola ‘shōgun’, porta con sé già nel titolo la tua passione per il Giappone e per la filosofia orientale che ti accompagna da sempre sia nel tuo percorso come mc, sia in quello come writer. Cosa rappresenta per te il Giappone? Troviamo anche nelle sonorità del tuo album richiami a questa splendida terra?
“Porto da sempre con me questa cosa della vicinanza alla filosofia zen sia in pittura che nella musica. Non a caso ho questo nome che è sempre stato un gioco per richiamare la cultura giapponese che sento molto vicina. Nell’album la possiamo ritrovare tra virgolette nella Title Track che è un campione di musica popolare giapponese, ma il richiamo al Giappone lo ritroviamo soprattutto nel corredo grafico del disco, nell’involucro, che vuol essere anche un collegamento all’attività che porto avanti come writer. Non ti aspettare però di ritrovare filosofia zen nei testi delle canzoni, perché non è così”.
Nelle tue canzoni racconti momenti della vita quotidiana di un ragazzo di quartiere, soffermandoti talvolta sulle contraddizioni di una società sempre più alienata e criticando una politica ed un sistema che non ti appartengono. Che importanza hanno i testi delle tue canzoni? Hai la possibilità tramite la tua musica di arrivare agli orecchi di molti e di far riflettere su determinate questioni… un grande potere, ma anche una grande possibilità… hai mai pensato a questo?
“Assolutamente i testi sono importanti, le parole sono importanti ed il messaggio lo è ancora di più. In effetti oggi come oggi si sta perdendo il valore dei testi e dei messaggi nel rap, che non ci dimentichiamo è nato proprio per questo motivo, per parlare di tematiche impegnate e per far sentire la voce ‘dal basso’. Nelle canzoni rap di oggi invece spesso il messaggio è diseducativo al massimo. Nel mio album non tutti i pezzi sono impegnati, però c’è questa linea riot un po’ ovunque. Ci sono dei pezzi dedicati, ma ci sono dei richiami un po’ in tutte le canzoni ad una sorta di ‘rivoluzione culturale’. Mi sembra giusto che la musica in generale, come la comunicazione e la pittura, faccia un po’ svegliare le persone e parli di tematiche un po’ più impegnate. Che poi alla fine non è nemmeno così difficile, all’inizio lo può sembrare e uno magari si chiede ‘chi sono io per parlare di queste cose?!’, ma il punto è che non dobbiamo dare soluzioni o imporre il nostro pensiero, basta dare il proprio punto di vista, le persone poi ascolteranno e faranno il proprio ragionamento”.
Nel tuo album un elogio anche alla tua altra passione… quella per il writing. Una filosofia di vita che prende la sua linfa dalla strada. Quanto ti ha dato la strada? Il due percorsi come Mc e come writer sono due universi che dialogano tra loro intersecandosi nutriti dallo stesso bisogno, oppure due strade parallele che rispecchiano due facce diverse della tua personalità?
“Assolutamente le vedo come due cose collegate. Mi piace sempre ricordare che ho iniziato con l’hip hop, quindi con tutto quello che questa cultura e questa scena si portava dietro, per scena intendo quel circolo di persone che poi ti permettono di imparare e crescere. Quando ero ragazzino – già a 14 anni facevo graffiti – ho frequentato questi circoli di persone ed è importantissimo che ci sia una ‘scena’ e quindi la strada intesa come un bacino di persone che si incontrano e si scambiano conoscenze e ti fanno da guida. Penso che ognuno sia un po’ una spugna e debba guardare, assorbire ed imparare dagli altri, perché da soli non si arriva da nessuna parte. Quindi sì, la strada come ‘scena’ è stata molto importante per tutte e due queste attività, che ho sempre portato avanti in parallelo. Non mi sono mia troppo sdoppiato sulle due attività, certo poi è difficile trovare il tempo per tutto e mi ci vorrebbero le giornate di 48 ore”.
Con quale dei vari artisti che hanno collaborato con te in ‘Showgun’ ti è piaciuto più contaminarti? Qual è la collaborazione che senti più tua?
“Sì certo citiamo un po’ i nomi di chi ha collaborato all’album. Per prima sicuramente Numa Crew, le produzioni sono loro, il disco non è comunque un mio disco solista, ma è un disco Numa Crew. Per quanto riguarda gli altri rapper, sono tutti miei fratelli con cui sono cresciuto insieme in questo tipo di sonorità qua e sono felicissimo che abbiano partecipato. Chi sono? I primi due sono Link, che adesso si chiama K!Dust, e Charlie Dakilo che erano i miei brothers di ‘Primiera’, altro gruppo hip hop che ho avuto per 4-5 anni. Poi c’è Ganji-Killah che è della massive di Macerata e ci conosciamo dall’inizio da quando abbiamo cominciato a fare dubstep; la dubstep ci ha connesso, facevamo radio insieme ed è nata un’amicizia tra crew e tra noi, poi adesso si è trasferito a Firenze e la collaborazione al disco è stata più semplice. Sempre sulla dubstep e sul grime ci siamo trovati anche con un altro ragazzo, Yodaman, che è originario di Napoli e sta a Milano ed è bravissimo; ha quella sonorità in dialetto incredibili, che tra l’altro io adoro perché sono mezzo ‘terrone’ e ne vado fiero”.
La tua sfida è quella di far apprezzare questa nuova miscela di sonorità a qualsiasi orecchio e di vivere di sola musica? A quali compromessi sei pronto a scendere per raggiungere l’obiettivo?
“Assolutamente l’obiettivo è quello di arrivare mainstream, non c’è da fare i finti. Perché no?! Arrivare ad un pubblico maggiore non solo ti fa comunicare meglio e a più persone, ma il fatto è che, se riesco veramente a farla diventare una professione, arrivare ad un pubblico più ampio di persone ne va a beneficio della musica stessa. Perché se io la mattina mi sveglio e devo pensare solo alla musica, perché è quello che mi dà il pane, allora sicuramente io avrò più tempo da dedicarci, se invece fossi obbligato a fare altri lavori per mantenermi, avrei meno tempo e questo andrebbe a discapito delle mie produzioni. Tutto questo senza dimenticare che c’è comunque un’integrità artistica e morale da mantenere, quello sta a te capire se vuoi arrivare a tutti i costi, oppure se vuoi arrivare con quello che ti piace ed in cui credi. Se fai il successo con quello in cui veramente credi, con te stesso, senza bisogno di metterti maschere, senza bisogno di cambiarti per piacere, allora come artista hai vinto”.
Francesca Nieri