Siamo tornati a far visita ad Orti Dipinti, il Community Garden al primo posto in Italia, secondo in Europa solo ad un’altra realtà green berlinese. Abbiamo fatto una chiacchierata con Giacomo Salizzoni, ideatore di questo progetto.
Orti Dipinti è un luogo di apprendimento e insegnamento che parla di scelte alimentari sane, biologiche e a km 0 nel rispetto della stagionalità, uno spazio di ricerca e formazione, professionalità e cultura: dove ci si concentra sulle persone e dove si scopre insieme il giardinaggio urbano attraverso la sua applicazione nella vita quotidiana.
Dall’esterno del cancello ‘Orti Dipinti’ non è troppo visibile, non ci sono insegne con tanto di loghi a promuovere questa bella realtà, solo un piccolo cartello che indica il piccolo giardino segreto… ma alla fine è proprio questa la filosofia che sta alla base dello spazio, come ci tiene a precisare lo stesso Giacomo: “Orti Dipinti deve essere un qualcosa da scoprire, da conquistare. Solo chi ha la curiosità di entrare e conoscere questa bella realtà, se lo è davvero meritato”.
Ad accoglierci, oltre a Giacomo, tre ragazzi del Ghana richiedenti asilo politico presenti nelle strutture fiorentine che svolgono attività volontaria nella manutenzione degli orti, annaffiando e curando le piante, ed alcuni inserimenti sociali che hanno qui trovato una seconda casa. Sì, perché a Orti Dipinti si fa tutto insieme, scambiando le proprie conoscenze e amalgamando le proprie peculiarità a quelle degli altri. È un vero Community Garden, dove, oltre che al rispetto per l’ambiente e all’educazione alimentare, si insegna il rispetto per le persone e lo scambio reciproco, di tempo, professionalità, esperienze di vita. E può capitare che tu venga qua per un’intervista e torni via con un sacchetto di alghe per ricreare una piccolo laghetto a casa. Sicuramente te ne andrai via arricchito, rigenerato e sorridente.
Qual è la vostra idea di orto urbano? Quali esperienze questo spazio ha preso come modello?
“Questo spazio nasce sull’eredità degli orti sociali, che di sociale avevano soltanto il nome, prendendo spunto da quelle esperienze di Community Garden anglosassoni e americane che hanno espresso maggiormente la possibilità della collaborazione e della convivialità, andando oltre la coltivazione e sviluppando una nuova concezione di orto urbano quale luogo dove fare attività, cucinare insieme, mangiare insieme. Agli antipodi rispetto ai nostri orti sociali che sono spesso mal tenuti, poco frequentati e dove vige ancora la mentalità della proprietà privata e, se trovi l’anziano che lo gestisce, può anche capitare che ti guardi in cagnesco perché ti sei avvicinato troppo e ha paura tu possa rubargli le sue verdure. Orti Dipinti si vuole distaccare da questa concezione di orto, facendo divenire questo spazio prima di tutto un luogo di aggregazione sociale e scambio reciproco tra persone. Oggi l’obiettivo non è più quello iniziale di coltivare, ma di imparare, stare insieme e fare delle esperienze; quella della coltivazione urbana è ‘una scusa’ per poi innescare un’infinità di processi e collaborazioni. Ci piacerebbe che la nostra idea di Community Garden potesse diventare un modello a cui auspicare e da replicare in altre realtà, facendo passare il messaggio che, con una spesa relativamente molto bassa, è possibile riqualificare spazi abbandonati e allo stesso tempo innescare tantissime interazioni sociali tra persone”.
Riallacciandoci al progetto regionale ‘100mila orti urbani’ di cui abbiamo già parlato su FUL, in che modo questa realtà – che ha di sicuro anticipato il modello a cui aspira la Regione Toscana – potrebbe inserirsi in questo macro progetto, collaborando quindi con le istituzioni fiorentine e regionali?
“Mi permetto di togliermi alcuni sassolini dalle scarpe; fino ad adesso infatti ho raccolto promesse dalle istituzioni che non sono state poi mantenute. Purtroppo a Firenze manca l’assessorato all’agricoltura e, quindi, tutti questi orti urbani nuovi vengono destinati al verde pubblico, che però ha già diverse problematiche da risolvere, soprattutto ultimamente in concomitanza con le varie calamità naturali che hanno interessato anche la nostra città. Sarebbe invece fondamentale creare a livello comunale un nuovo assessorato all’agricoltura urban, vista la crescita di esperienze di questo tipo, per gestire adeguatamente problematiche e opportunità che l’assessorato al verde pubblico forse non riesce a seguire completamente. Il Comune ci ha dato la grande possibilità di usare questo spazio, che comunque era un’area molto degradata del quartiere che noi abbiamo fatto rinascere, ma non ci ha supportato economicamente e moralmente nelle nostre attività, non vedendo le potenzialità che potrebbe avere questo spazio per la città ed il turismo. Ancora siamo ad aspettare, da luglio dello scorso anno, che il Comune di Firenze ci riconfermi la convenzione per la gestione dello spazio. Attendiamo dunque, aggrappati alla speranza, che qualcosa presto si muova…”
Raccontaci un po’ la storia di questo spazio e dove nasce l’idea di chiamarlo ‘Orti Dipinti’…
“Tutta quest’area, comprensiva del parco che fa da anticamera e del nostro orto, era una bel parco di fine ottocento che è stato troncato in due spazi negli anni ‘70 per farci una pista di atletica leggera ad utilizzo dei ragazzi del quartiere. Mancando i servizi igienici, i ragazzi del posto hanno smesso di frequentarlo e successivamente è stato chiuso. Per dieci anni è stato frequentato clandestinamente da tossicodipendenti. Quindi questo è l’esempio di cosa non fare! Bisognerebbe riflettere sul potenziale che hanno questi piccoli spazi ed interstizi e sulla riqualificazione di luoghi abbandonati come lo era questo. Tra l’altro questo luogo ha una grande storia: qua già nell’anno 1000 c’era un importantissimo orto urbano, l’Orto dei Salviati, dove, ben 544 anni prima dei primi orti botanici di Padova e Firenze, studiavano come far crescere tutti i semi e le piantine che trovavano a giro nel mondo, non per ragioni scientifiche, ma per quelle più fondamentali della sussistenza. Molte di queste piante sono diventate autoctone della Toscana come l’uva saggia ed il cavolo nero. Un’altra cosa che mi piace molto raccontare è l’etimologia del nome di questo spazio. Si chiama Orti Dipinti, sì perché siamo in Borgo Pinti, ma anche perché in Borgo Pinti (che significa letteralmente borgo dei dipinti), c’erano dei pittori che dipingevano i giardini dei conventi e dei monasteri presenti in questa zona. Gli artisti che circolavano erano veramente tanti e spesso si trovavano a vagare per questa strada, e difatti il suo proseguo fu poi chiamata via degli Artisti”.
Qual è la vostra missione a livello ambientale? Su quali principi di agricoltura si basa il vostro operato?
“La nostra ambiziosa missione è senza dubbio quella di salvare il mondo! Scherzi a parte, luoghi come questo compensano la mancanza di educazione alimentare e nutrizionale che è in fondo alla base del disastro ambientale a cui stiamo assistendo. La maggior causa di inquinamento ambientale sono l’allevamento di bestiame e l’agricoltura intensive: due fenomeni che noi in questo spazio critichiamo duramente. Una dieta in cui si fa uso massiccio di carne è sicuramente la cosa peggiore per noi e il pianeta; non dico di non mangiare carne, anche a me piace una bella fiorentina di qualità, ma suggeriamo solo di diminuire la frequenza con cui la mangiamo. Gli allevamenti causano la deforestazione perché necessitano di ampi spazi, i gas prodotti dagli animali sono altamente inquinanti ed occorre un grande quantitativo d’acqua per produrre la carne (un esempio che faccio sempre agli studenti: per produrre 1 kg di pomodori ci vogliono circa 100 litri di acqua, mentre per produrre 1 kg di carne rossa fino a 20mila. Quindi quando ti mangi un hamburger, non proprio salutare, stai consumando quasi 3 metri cubi d’acqua, l’equivalente di 50 docce). Le nostre scelte alimentari, le food choices, sono quelle che incidono di più sull’inquinamento, sull’ambiente e soprattutto su di noi. Anche l’agricoltura intensiva è un metodo ormai primitivo, è roba di 60 anni fa, sviluppata da uomini che cercavano esclusivamente il profitto a breve termine. Avere un campo intero con una sola coltura, cosa che non esiste in natura, impoverisce il terreno, implica l’uso di pesticidi per combattere i tanti parassiti che intaccano le verdure, perché non c’è quella difesa intrinseca del sistema generata dalla biodiversità. Noi ad ‘Orti Dipinti’ ci ispiriamo anche al metodo non interventista del giapponese Masanobu Fukuoka che descrive bene nel suo libro ‘La rivoluzione del filo di paglia’, dove esalta l’agricoltura del ‘non fare’. Piuttosto che prendere la terra e ribaltarla mettendo ciò che per natura stava sotto, sopra, e viceversa, meglio non intervenire. Un conto è arare con la vanga, un conto è ribaltare intere zolle. Fukuoka, che aveva fatto questi studi negli anni ’50, comprò un pezzo di terra in una zona dal terreno altamente impoverito dall’agricoltura industriale e lì sperimentò le sue teorie senza intervenire troppo; da lì è poi venuta su una specie di foresta. Tra l’altro si risparmia: nessun pesticida, poco fertilizzante e scarsa mano d’opera. In questo Community Garden seguiamo questa filosofia insieme ai principi della permacultura.
Coltiviamo all’interno di casse da trasporto appoggiate su dei pallet, in modo da poterle spostare. Esse sono riempite “a lasagna”, con stratificazioni particolari: partendo dalla base ci sono ceppi di legno, frasche, letame e nella parte superiore un terriccio biologico misto a humus e cippato. Questo sistema che si chiama “Hugelkultur” fu messo a punto da un austriaco di nome Holzmann, che riusciva a coltivare pomodori fino ad ottobre, in Austria appunto. Per l’innaffiatura abbiamo adottato un metodo antichissimo, ma innovativo: interriamo, all’interno di ogni cassa, due ampolle in cotto realizzate all’Impruneta, che rilasciano in maniera lenta e costante l’acqua (e l’ossigeno) alle piante attraverso la porosità dell’argilla (www.slowwater.it). Ogni ampolla è stata poi personalizzata con un diverso tappo sempre in argilla realizzato e dipinto dai ragazzi con difficoltà del Centro Gaetano Barberi, che frequentano il nostro orto. Infine non usiamo pesticidi se non, ogni tanto, quelli naturali fatti da noi a base di peperoncino, aglio, ortica e sapone di marsiglia”.
Come si può contribuire ai vostri progetti e alle vostre attività?
“In diversi modi… tuttavia premetto che in 4 anni di gestione ho visto passare più di 700 volontari. Al principio ero molto coinvolgente e concedevo molta libertà ai singoli volontari, poi ho capito, cambiando moltissimi approcci con tutte queste persone, che c’era bisogno di regole più ferree e di una struttura più gerarchica per fare funzionare il tutto. C’è un solo responsabile, alla fine, che deve avere l’ultima parola. Il volontario ha però una vasta scelta fra le attività da svolgere e può decidere in che modo collaborare, sotto attenta supervisione. Ci sono molti modi per interagire con lo spazio: semplicemente visitandolo o partecipando ai laboratori; avendo cura dell’orto o collaborando allo sviluppo dei nostri progetti. Di fondo c’è dunque una mentalità semi-aziendale, ma per far funzionare le cose deve essere gestita così, perché oltre a creare lavoro si vuole anche creare una ricchezza che deve essere poi ripartita. Dopo quattro anni di gestione ho imparato che i volontari vanno e vengono, anche in base alle loro possibilità e al loro tempo. Più che a “donare” il proprio tempo, le persone vengono qua a ‘barattarlo’ in cambio di emozioni, esperienze, conoscenze”.
Orti dipinti prima che essere uno spazio dove si fa agricoltura è uno spazio di crescita e di interazione sociale…
“I community garden possono essere un esperimento di ‘tecnologia sociale’ di altissimo livello. Da noi, oltre ai volontari, collaborano studenti italiani e stranieri, rifugiati, ragazzi del centro disabili, inserimenti sociali come Stefano, il mio preziosissimo braccio destro, che è uno dei quattro inserimenti socio lavorativi che ci hanno mandato le varie associazioni con cui collaboriamo. Lo dico con grande orgoglio… questo luogo sta creando per loro nuove opportunità, per alcuni anche un nuovo lavoro, facendoli sentire così più indipendenti e realizzati. In spazi neutrali come questi avvengono dei miracoli sociali che solo trenta metri più in là, sulla strada, non potrebbero mai avvenire. Io stesso sono testimone di incontri e alchimie meravigliose”.
Quali sono le attività che portate avanti qua ad Orti Dipinti e quali idee mettete in atto per rendere virtuoso questo spazio?
“Con affanno ci stiamo districando tra i diversi limiti e le criticità che si sono presentate. Partiamo dal fatto che questo è uno spazio nato con finalità didattiche e non commerciali e quindi ‘non è in vendita’: non vendiamo quello che produciamo, che piuttosto viene diviso in tre parti: un terzo va a chi lavora, un terzo viene condiviso con la comunità in occasione di pranzi o cene sociali e un altro terzo va a chi sostiene con un’offerta il progetto. Certo un giorno ci piacerebbe poter vendere alcune piantine o alcuni gadget per portare avanti le nostre attività, ma da convenzione questo per ora non è possibile. Le attività didattiche, che personalmente conduco agli Orti Dipinti, però non entrano in alcun conflitto con le regole imposte dalla convenzione col Comune. Al quarto anno posso dire che le Università americane si sono dimostrate fin da subito molto curiose e collaborative, al contrario di quelle italiane. Gli studenti americani fanno visite guidate, partecipano attivamente a workshop, assaggiano alcune erbe dell’orto, si divertono a creare infusi aromatici assortiti con combinazioni delle nostre erbe. Le erbe aromatiche diventano quindi un bene che si aggancia ad un servizio. Ai workshop agli americani si aggiungono poi i laboratori con i bambini e le feste di compleanno.
Per quanto riguarda il fatto di aprire il nostro spazio a degli eventi, negli anni abbiamo fatto corsi, eventi di danza, aperitivi e cene. Purtroppo da questo punto di vista abbiamo dei grandi limiti soprattutto per quanto riguarda il rumore, visto che siamo in una zona residenziale. Quest’anno non abbiamo fatto la richiesta per l’Estate fiorentina, primo perché come dicevo la convenzione è scaduta, secondo perché l’aiuto economico che ti danno è abbastanza limitato se paragonato all’impegno che poi devi mantenere tutta l’estate, terzo perché vogliamo rispettare il vicinato. Tuttavia qualche serata la faremo… senza fare tardi e rumore.
E poi c’è il green market on line, una serie d’idee reinventate e recuperate con l’obiettivo di instillare il seme della consapevolezza ambientale e alimentare nelle persone. Abbiamo una serie di gadget a tema green, come le bacchette magiche germinanti, le monete di humus prodotto dai nostri lombrichi, infusi e sali aromatici, cartoline con ricette e tanti altri in mostra sul sito di Orti Dipinti. Sono piccoli oggetti che però hanno un grande potenziale… proprio come i semi del nostro orto, che da piccoli come sono diventano piante vigorose in grado di offrirci una sana alimentazione. Anche così, Orti Dipinti vuole offrire i frutti di questa presa di coscienza ambientale”.
Il vostro motto?
Enriching Our Community As We Grow Together:
Arricchire la nostra comunità crescendo insieme.
Francesca Nieri.