Grande appassionato ed esperto di vino, Paolo Miano è un anfitrione come pochi in città. È toccato a lui, braccio destro del proprietario Tommaso Grasso, guidare fin dall’apertura gli ospiti di Golden View verso wine pairing inusuali ed esperienze appaganti. Non solo per la splendida location.
All’interno dello speciale realizzato la scorsa estate dal nome “Rooftop, mixology e design della ristorazione”, abbiamo intervistato anche il Wine & Event Manager del Golden View (Via de’ Bardi, 58/r), Paolo Miano. Di seguito l’intervista integrale.
Paolo, quando hai iniziato a lavorare nel settore degli eventi e della ristorazione?
“A 14 anni convinsi mio padre a prestarmi dei soldi per prenotare la discoteca del mio paese e organizzare il ballo del liceo. Lì è iniziato tutto. Sono arrivato a Firenze nel ’96, ma dopo due anni sono volato a Londra per fare l’assistente manager in un pub a Camden Town. Nel 2000 ho frequentato il Master in struttura e tecnica della narrazione alla Scuola Holden di Alessandro Baricco a Torino. Lavoravo in un ristorante frequentato dai calciatori, La Cantinetta. Nel 2002 sono tornato a Firenze per avviare l’esperienza Golden View, ma non mi sono fatto mancare un’avventura nelle Piccole Antille Francesi, a Saint Barth, lavorando in uno dei ristoranti più fuori di testa al mondo: il Petit Saint Barth. Nel 2005 è partito il progetto del Golden View e, dopo un’esperienza nella mia Siracusa nel 2009, sono tornato definitivamente a Firenze. Nel 2014 mi sono occupato, tra le altre cose, anche dell’apertura del ristorante Golden View a 40 minuti da New York. Insomma, diciamo che in questi anni ne ho fatte parecchie”.
Come interpreti il lavoro in sala a livello umano e professionale?
“Lo considero un continuo equilibrio tra il seguire il cliente – dall’inizio alla fine – senza però assillarlo. Il «Tutto bene?» ripetuto cinque volte non ha senso. Serve piuttosto un’attenzione a distanza, servono pochi approcci che non invadano lo spazio altrui, stabilendo piuttosto una relazione basata sulla verità. Il cliente deve avere sempre la sensazione di essere stato a casa di amici, ma a questo non si arriva con troppi sorrisi, barzellette, due pacche sulle spalle e un limoncello. Ci si arriva con una profonda conoscenza del menù e della carta dei vini, una accurata familiarità con gli ingredienti che compongono il piatto. Solo così si riesce a far sentire il cliente a casa, perché capisce di essere in una zona confortevole e dunque si rilassa lasciandoti il volante della macchina”.
Esperto anfitrione, ma anche grande esperto di vino: com’è nata questa tua passione e cosa ricerchi in una bottiglia?
“Questa passione mi è stata tramandata da mio nonno Fernando Nocentini, toscano di Bucine che ha sposato in Sicilia la gentil Madonna che era mia nonna. Era un oste, temperamento caldo e boccia di vino con la pesca dentro. A me una bottiglia deve raccontare qualcosa, ricerco la voce del vino. Anche quando è timido, il vino parla: devi solo trovare la chiave di volta per poterlo capire. E se ci riesci diventa subito amore. Non sopporto la vivisezione tecnica di un vino. Non c’è passione, non c’è amore. Ripeto: ci si siede, si apre la bottiglia e si ascolta cosa ha da dirci il vino. Questo è il mio modo di vivere questo meraviglioso mondo. Come quando vai a trovare i produttori e fai loro le stesse domande che troveresti sul loro sito. Meglio stare zitto, sedersi e saper ascoltare”.
Qual è il wine pairing più curioso che proponi al Golden View?
“Mi annoio a proporre più volte le stesse cose, dunque provo continuamente a cambiare. Ultimamente mi piace suggerire vino bianco per accompagnare menù di carne. Se poi mi chiedi qual è il mio preferito, ti rispondo che potrei stare giorni e giorni a mangiare ostriche e bere Sauternes. Mi fa impazzire la sensazione del palato che si ribalta a 360 gradi, dal salato al dolce e viceversa, in un gioco infinito di contrasti e sapori”.
Un’ultima riflessione: perché secondo te ai giovani di oggi interessa meno lavorare in sala rispetto a bar e cucina?
“Perché in sala non si diventa delle star, non è stato fatto un reality per sommelier. Ci hanno provato ma è noioso. L’appassionato di vini passa come il secchione del gruppo. Invece i vari MasterChef hanno creato l’idea dello Chef come star, generando un’orda di ragazzini che all’alberghiero scelgono la cucina. Venti anni fa non era così. Il fenomeno della migrazione dalla sala alla cucina era davanti agli occhi di tutti, però nessuno è intervenuto. Adesso dovremmo lamentarci di meno, perché questa è una sconfitta del settore intero e non serve dare la colpa alla televisione. Chi si occupa di formazione scolastica sapeva già quello che stava accadendo. Comunque sono convinto che tra qualche anno ci sarà un’inversione, quando capiranno che il lavoro in cucina è un lavoro duro, fatto di tanto sudore e di molte ore in piedi. I ragazzi capiranno che prima di fare una spuma di patate le patate andranno pelate”.