Non è uno street artist ma le sue opere sono sui muri di Firenze e di tutto il mondo. Si chiama Jacq, le sue “icone” sono dipinte per sottrazione. Mancano gli elementi che solitamente sono pensati come caratterizzanti di un volto: il naso, la bocca, gli occhi. I suoi volti però hanno ugualmente una forte caratterizzazione e riescono ad andare oltre la semplice riconoscibilità a primo impatto, stimolando dunque una riflessione su cosa renda unica e personale l’identità di ognuno di noi.
Con i suoi volti, ha valicato anche i confini nazionali e ha preso parte a importanti manifestazioni, da Paratissima Art Fair, allo Spazio Kanz nel circuito della Biennale di Venezia, fino a ECCO-Espacio de Cultura Contemporanea de Cadiz. La sua opera donata al Museo Civico d’Arte di Montecatini sta ora in mezzo a Mirò, Banksy ed Henry Moore. L’abbiamo intervistato per saperne di più di chi è Jacq e dei suoi volti.
Non hai una formazione artistica accademica, il tuo percorso di studi è stato di tutt’altro tipo. Ti sei avvicinato all’arte affascinato da artisti come Modigliani che dipingeva i suoi volti senz’occhi, per sottrazione proprio come te dunque. Quale esigenza o urgenza ti ha spinto ad esprimerti con il mezzo artistico?
È vero, non ho una formazione artistica scolastica, il mio percorso di studi verte su tutt’altro. Però sono sempre stato un tipo creativo, l’arte mi ha sempre attratto e in particolare sono sempre stato colpito dalla composizione, dai colori, e dalla pennellata delle opere. Da che ho memoria l’arte è stata un interesse forte ma latente in me. Poi a un certo punto ho sentito un’esigenza di pancia e ho deciso di prendere tela e pennello; nel 2012 ho fatto la prima opera, un autoritratto, e da quel momento è diventata la mia ragione di vita, qualcosa di improvviso e potente che mi ha travolto. Io sono un tipo discontinuo, mi annoio facilmente, ma non di dipingere. All’inizio era qualcosa di quasi inconscio, poi ho assunto una consapevolezza di cosa stavo facendo e ho capito che questo modo di esprimermi è il mio modo di descrivere le persone, che pone l’attenzione su tratti ritenuti solitamente secondari, quali la postura, l’espressione, la posizione delle sopracciglia o l’inclinazione della testa, e l’ho messo sulla tela.
Hai deciso di restare anonimo, di non darti un volto scandito, proprio come per le tue opere. C’è un qualche legame tra il tuo anonimato e l’anonimato (apparente) delle tue opere?
L’anonimato riguardo me stesso nasce da un disagio di collegare il mio lavoro al mio vero nome; volevo non essere soggetto al pregiudizio della mia persona, del mio percorso; volevo una valutazione autentica del mio lavoro. Sono i volti che parlano per me e mi rappresentano. Il mio ruolo è marginale, volevo concentrare tutto sui soggetti.
I protagonisti delle tue opere non sanno di essere ritratti, lo scoprono solo se si riconoscono e se qualcun altro li riconosce nelle foto delle opere finite che posti suoi tuoi profili social, soprattutto Instagram. Come avviene la scelta dei soggetti da rappresentare? E come fai visto che loro non posano per te?
C’è un primo momento in cui vado a giro, incontro qualcuno e mi scatta l’idea, l’ispirazione, la voglia di ritrarre quel volto. A volte avviene al primo incontro, altre volte succede invece dopo varie volte che ho incrociato quella persona. In un secondo momento poi c’è uno studio del volto e ciò avviene anche grazie alle foto che trovo sui social: queste mi che aiutano tanto, anche perché ho modo di vedere quella persona in più momenti e pose diverse. Ciò mi permette di trovare l’elemento caratterizzante: a volte è la barba, altre volte il taglio delle sopracciglia, altre ancora è il profilo, come nel caso dell’ultimo ritratto che ho realizzato per il Gruppo di Lavoro Artistico del Teatro Metastasio, visibile sulla mia pagina facebook.
Per le tue opere utilizzi di solito colori ad olio, ricchi di quella metericità per cui dici di aver sempre avuto una particolare attrazione. Però usi anche materiali riciclati, in particolare scarti tessili e tessuti di lana meccanica ottenuti con un processo di riciclo per cui possiamo parlare di arte tessile rigenerata. In questo c’è sicuramente un’attenzione all’ambiente ma c’è anche un legame con la tua città, Prato, che ha una forte tradizione laniera…
Sicuramente c’è un legame con Prato che è la mia città e il luogo da cui prendo ispirazione e che in questo modo voglio anche omaggiare. In particolare uso un tessuto rigenerato fatto qui a Prato dall’azienda Comistra, che è molto attenta al tema della sostenibilità ambientale, con il quale realizzo particolari delle opere e anche lo sfondo, come una sorta di collage. Ciò unisce il tributo alla tradizione manifatturiera pratese con il concetto di attenzione all’ambiente a cui tengo molto. Spero le mie opere in questo senso possano anche lanciare anche un messaggio.
Come mezzo principale di diffusione delle tue opere utilizzi gli adesivi, che sono diventati ormai parte di un’azione di branding di Jacq. Le persone li guardano, li fotografano e a volte li staccano, li fanno propri. È un modo per avvicinare la tua arte a tutti?
Gli adesivi sono nati come puro mezzo di diffusione e l’idea ha funzionato, hanno destato molta curiosità. Successivamente l’idea degli sticker ha avuto un risvolto molto bello e inaspettato: con questo mezzo semplicissimo sono riuscito a coinvolgere le persone. Oltre a quelli che lascio in giro per la città e quando mi sposto anche al di fuori di essa, ho iniziato a inviare a chi me ne faceva richiesta gli adesivi per posta, in busta chiusa e le persone hanno iniziato a lasciarli in giro anche nei loro viaggi per il mondo, diventando così ambasciatori della mia arte. Mi piace pensare che i miei adesivi entrano nell’intimità di un viaggio che solitamente è un’esperienza molto personale. Ora vorrei ampliare questo progetto che ha preso il nome di “#InViaggioConJacq”: vorrei dare i miei adesivi a tutti quelli che li richiedono, rendendo le persone ambasciatori del mio lavoro, e vederli diffondersi ovunque, soprattutto dopo questo anno difficile che ha ridotto la mobilità, gli spostamenti, i contatti. L’intento principale è quello di diffondere la mia arte in tutto il mondo e mi piace l’idea di farlo attraverso le persone che apprezzano il mio lavoro, creando una rete collettiva di persone. Si crea così quasi una performance, in cui le persone hanno la loro parte, con la loro gestualità e ritualità. Poi non posso prevedere che fine faranno gli adesivi, ma anche questo fa parte dell’anti convenzionalità di questo percorso.
Quando realizzi i tuoi ritratti cosa vuoi catturare di chi hai davanti? E come reagiscono le persone?
I volti non hanno solo lo scopo di rappresentare le persone, ma anche le loro storie, i legami. Quando faccio un volto e lo metto online, ognuno dà la sua personale e intima interpretazione, e scaturisce una reazione nelle persone ritratte, a volte anche negativa, perché l’opera va a toccare dei tasti personali e intimi. Quando i ritratti non sono singoli, ma di due o più persone insieme, siano essi fidanzati, fratelli o altro, c’è un’emotività ancora più forte e mi piace che il ritratto riesca dunque a cogliere la potenza di quel legame. Oltre a ciò poi c’è chi nei ritratti si riconosce e li condivide sui propri canali social, altre volte non succede ma è la minoranza dei casi. Altre volte invece c’è chi si riconosce in un volto che non è il suo; ognuno ha percezioni diverse di sé stesso e di come gli altri ci vedono, non è detto che per due soggetti sia la stessa. Entra spesso in gioco nelle mie opere anche il tema dello scambio di identità e della somiglianza. In questo senso il mio progetto, “I volti di Jacq”, è anche un esperimento sociale; è stato possibile portarlo avanti a Prato perché si tratta di una comunità comunque ristretta e le persone si conoscono e si riconoscono. Senza abbandonare questa parte di progetto adesso però vorrei anche uscire dai miei confini, allargare i miei ritratti a chiunque, sempre dipingendo volti di gente comune; sono loro che mi interessano.
Sul tuo profilo social hai condiviso l’affermazione di Bruno Munari “Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare. Per semplificare bisogna togliere, e per togliere bisogna sapere che cosa togliere […]”. Possiamo dire che questo pensiero riassume un po’ il tuo manifesto artistico?
Sì, mi ci ritrovo pienamente; questo è il mio modo di rappresentare, il risultato finito è un volto essenziale ma in realtà è il frutto di una sintesi a cui si è giunti tramite un lungo lavoro. Per quanto riguarda l’idea di un mio manifesto credo che questo potrebbe essere rappresentato da un video musicale che ho realizzato in collaborazione con l’artista pratese Enrico Matheis; lui si è ispirato a me per la sua canzone e parimenti io ho sentito l’esigenza di ritrarlo. In quel video e in quella canzone c’è J.A.C.Q., la mia arte, il mio anonimato, le mie identità.