Viaggio al confine orientale dell’Unione Europea
Nei Paesi Baltici il dibattito sul riarmo europeo e le intenzioni del presidente russo Putin non è rumore di fondo, ma una questione che suscita preoccupazione quotidiana.
Alla stazione ferroviaria di Kaunas osserviamo un treno merci con i vagoni che hanno le scritte in cirillico. Arrivano dalla Bielorussia e sono diretti a Kaliningrad. Il confine con l’enclave della Federazione Russa dista circa 50 km da qui. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina nel 2022, la Lituania, di contro, ha provato a bloccarne i rifornimenti. Come effetto dell’entrata in vigore delle misure restrittive internazionali, le autorità lituane a giugno 2022 avevano vietato il transito sul proprio territorio di carbone, metalli, legno, cemento e tecnologie avanzate dalla Russia verso il Baltico.
La tensione diplomatica-commerciale con il Cremlino è durata un mese, poi la Commissione Europea ha consentito il ripristino del transito, precisando che avrebbe monitorato i flussi commerciali verso Kaliningrad “per garantire che le merci sanzionate non possano entrare nel territorio doganale dell’Unione”. Proprio nella città che ha dato i natali al filosofo pacifista Immanuel Kant, la Russia tiene testate nucleari puntate verso Berlino.
Beatriče racconta che nel 1991, al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica (i Paesi Baltici avevano dichiarato l’indipendenza l’anno prima), i russi proposero ai lituani di comprare questo territorio e annetterlo. Ma a Vilnius preferirono rifiutare l’offerta di Mosca, meglio avere uno Stato-nazione più piccolo ma etnicamente compatto piuttosto che avere all’interno una regione di cittadini esclusivamente russofoni. Questione, questa delle minoranze, che invece hanno l’Estonia e la Lettonia, soprattutto quest’ultima con metà della popolazione di etnia russa e non baltica.
Dalla capitale lituana, invece, il confine bielorusso dista circa 30 km e il vicino è altrettanto scomodo, perché il regime di Aleksandr Lukashenko è uno stretto alleato di Vladimir Putin. Nel giugno 2023, proprio durante il Summit NATO di Vilnius, il presidente lituano Gitanas Nausėda avvertì che la Bielorussia ospitava il gruppo mercenario russo Wagner (allora guidato da Yevgeny Prigozhin), rendendo necessario rafforzare il suo fianco orientale.

Dal 2004 l’adesione della Lituania alla NATO si basa sulla disposizione stabilita nella Costituzione della Repubblica di Lituania per “la sicurezza e l’indipendenza del Paese, il benessere dei cittadini e i loro diritti e libertà fondamentali”. Per il 2026 i Paesi Baltici impegneranno nella difesa il 5% del loro PIL, ben oltre la quota del 2% consigliata dal Trattato. L’invasione russa dell’Ucraina evidenzia anche problemi di identità nazionale in Lituania, Estonia e Lettonia.
Dopo aver trascorso 45 anni di occupazione sotto il regime sovietico, i baltici si identificano facilmente con le vittime ucraine delle atrocità russe. Su questo ci confrontiamo spesso con Beatriče, perché se per lei, da lituana, è facile schierarsi con l’aggredito, io ho un’idea più critica. Nonostante sia chiaro chi è l’aggressore e chi l’aggredito, ritengo sia una guerra tra un imperialismo e un nazionalismo, entrambi corrotti. Anche sulla NATO abbiamo posizioni diverse, per lei, comprensibilmente, è una garanzia di indipendenza della sua madrepatria, per me ormai è solo un arnese arrugginito dell’imperialismo americano colpevole di una lunga serie di crimini di guerra: dalla Jugoslavia alla Libia, passando per l’Iraq.
Su un punto però siamo d’accordo: il disimpegno degli americani in Europa pone il dilemma di come difendersi da soli, perché potremmo non contare più sul vecchio grande alleato, dal momento che Donald Trump è più in sintonia con Mosca che con Bruxelles. La Germania, ha annunciato il cancelliere Friedrich Merz, ha un piano di riarmo per 1.000 miliardi di euro per i prossimi dieci anni. La Lettonia è uscita dal Trattato di messa al bando delle mine “antiuomo”: nonostante l’80% delle vittime di questa atroce arma siano civili, a Riga pensano possano tornare utili in caso di invasione della Russia…

A Klaipeda i nostri dubbi sono sottoposti a Audrius, un volontario di un’unità di difesa territoriale lituana, ma che negli anni Ottanta è stato sergente dell’Armata Rossa, proprio durante l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica. Se la Russia è la minaccia, chi meglio di qualcuno che l’esercito russo lo ha vissuto da dentro, anche se all’epoca era “sovietico” e comprendeva tutti i popoli dell’URSS, baltici inclusi. Non si può non partire dal dibattito che in Europa Occidentale da tre anni vede contrapposti chi pensa che dopo l’Ucraina i russi non siano più in grado di attaccare altri Stati e chi teme che potrebbero farlo. Nel dubbio i Paesi Baltici provano a tenersi pronti. Siamo qui per capire proprio questo.
«Visto il contesto attuale dell’industria bellica russa, che è messa molto bene, i Paesi Baltici sono pronti a difendersi solo in base a quanto l’Europa è disposta a proteggerci – esordisce Audrius – dato che il disimpegno degli americani temo sia reale. E purtroppo l’Europa non è pronta in caso di un’eventuale aggressione. Dal punto di vista locale, qui in Lituania, ci sono molti civili che si iscrivono a delle associazioni di volontariato militare per fare dei percorsi di addestramento, per essere in grado di tentare una forma di resistenza attiva in caso di attacco esterno. Oltre all’addestramento, i volontari si dotano personalmente a proprie spese di un’attrezzatura militare che può comprendere armi, uniformi, zaini, elmetti, ecc… Quindi, dal punto di vista mentale, c’è una consapevolezza che una guerra è possibile, ma chiaramente dal punto di vista pratico non ci sono uomini a sufficienza, quindi tutto dipenderebbe dalla NATO».
“Difesa dell’Europa” e “difesa europea” non sono sinonimi: la Commissione UE non dispone di competenze e risorse proprie in ambito militare, se la prima è di fatto appaltata alla NATO, la seconda rimane sulla carta e condizionata dalle divergenze strategiche tra i Paesi membri. Peraltro, presi complessivamente, i 27 eserciti europei spenderebbero in armamenti più della Russia.

Quindi a Bruxelles c’è questo dibattito, sul riarmo dell’Europa in vista di un disimpegno degli americani (per NBC News il Dipartimento di Stato sta valutando il ritiro di 10.000 soldati dall’Europa Orientale, NdR), ma nessuno ci dice che tipo di armi dovremmo comprare e che genere di conflitto dovremmo essere pronti a combattere. Chiediamo che idea si è fatto lui.
«Innanzitutto vorrei evidenziare che un eventuale esercito europeo non avrebbe mai la consistenza numerica di quello russo, che rimane il più grande del mondo per numero di uomini. L’Unione Europea al momento non ha né uomini, né armi, né basi militari. E pure i singoli eserciti hanno carenze: mancano sistemi di artiglieria di medio-lungo raggio per una guerra di attrito che possano colpire il territorio nemico in profondità fino a 300 km. Quando gli ucraini hanno ricevuto questi armamenti dagli americani è stato possibile organizzare una resistenza efficace all’invasione russa. Ovviamente, in una guerra diventata tecnologica, servono i droni. E anche quelli ci mancano».
A questo punto la curiosità si volge al passato. Vogliamo sapere che ricordi ha della guerra in Afghanistan e quanto è diversa l’allora armata sovietica dall’attuale esercito di Mosca.
«Sono stato inviato in Afghanistan a 18 anni nel 1985, dopo sei mesi di addestramento in Lettonia, e ci sono rimasto due anni. Ero sergente maggiore, avevo una squadra di 24 elementi e ci occupavamo dello sminamento del terreno dalle mine dei combattenti nemici. Operavamo in formazioni separate e preparavamo il passaggio dell’Armata Rossa, mentre dalle montagne le unità aviotrasportate ci proteggevano. Per quanto siano passati 40 anni, a Mosca l’idea di come condurre un conflitto non è cambiata molto. Parlando dell’occupazione dell’Ucraina, ho osservato e riconosciuto la solita strategia iniziale: l’invasione su larga scala con truppe di terra mettendo in conto grandi perdite di uomini.
Poi i russi si sono adeguati a una guerra di logoramento, utilizzando più divisioni composte da un numero inferiore di soldati. Chiaramente oggi c’è un fattore diverso in campo: la tecnologia, ci sono i droni. È rimasta però la crudeltà dei russi, la solita che ho visto in Afghanistan: massacri di civili inermi, stupri, torture, villaggi rasi al suolo. È uguale anche la propaganda per stimolare l’odio verso la popolazione invasa. L’odio per gli ucraini è il solito che ci veniva inculcato verso gli afghani. Voglio raccontarvi un episodio. Avevo un commilitone moldavo in squadra e una sera, dato che vicino al campo c’era una vigna, andò a raccogliere dell’uva per tutti, ma passò la notte e non fece ritorno. Dopo tre giorni i combattenti afghani ci fecero trovare il corpo del soldato orribilmente torturato, gli avevano tagliato la lingua e non voglio scendere in ulteriori dettagli, comunque eravamo in guerra ed era il loro messaggio a noi sovietici invasori.

La cosa che trovai però ancora più disumana fu l’atteggiamento dei nostri superiori: invece di disporre l’immediato rimpatrio della salma, radunarono tutto il battaglione nel campo-base e ci costrinsero uno a uno a guardare bene in che condizioni versava il cadavere. Poi ci invitarono a essere ancora più spietati verso gli “animali” afghani che, ripeto, erano a casa loro. Ancora oggi i russi, senza alcuna etica militare, mandano in Ucraina giovani soldati come carne da macello e li costringono, se non si fanno ammazzare prima, a diventare degli spietati assassini. Ecco, in questo non c’è differenza, sono le solite barbarie a cui ho assistito in Afghanistan».
L’occupazione russa dell’Afghanistan nel 1979 ha un’analogia con l’Ucraina da “de-nazificare” oggi. L’URSS allora – di fronte alla minaccia dell’estensione della rivoluzione islamica alle sue repubbliche di Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan – decise di invadere per operare un cambio di regime a Kabul. Ci rimase impantanata fino al 1989, tanto che quel conflitto è considerato una delle cause del crollo del sistema socialista sovietico. Antonio Gramsci ha detto che “tutti i regimi militari finiscono con una guerra”, eppure a pensare alla Russia verrebbe da dire il contrario: l’aggressione all’Ucraina ha rafforzato il regime di Putin.
Per Beatriče il racconto ha scoperto un nervo perché la sensazione della minaccia, che grava sulla Lituania dal grande e scomodo Paese lì al confine, sembra ancora più vicina. I russi sono appena 143 milioni ad abitare un territorio immenso di oltre 17 milioni di km2, ma hanno la “sindrome dell’assedio” da ovest. Al porto di Tallinn, in Estonia, mi aveva incuriosito un edificio brutalista senza funzione apparente. Poi ho scoperto essere una fortezza militare abbandonata. L’URSS l’aveva costruita per difendersi da un’eventuale aggressione dalla Finlandia, un Paese all’epoca non membro NATO e di soli 5 milioni di abitanti!

Nonostante l’imperatrice Caterina II nel corso del Settecento si fosse impegnata per rendere la Russia una civiltà europea, il rapporto dei russi con l’Europa è sempre stato di odio-amore. Ne sono attratti, ma da qui sono arrivate le due minacce esiziali che hanno messo a rischio l’integrità della grande madrepatria: l’invasione delle truppe di Napoleone nel 1812 e quelle di Hitler nel 1941. Quindi preferiscono considerarsi “euro-asiatici”, ma in Cina li scherniscono per questo: i russi, agli occhi dei cinesi, sono quelli che si ostinano a vivere in un territorio inospitale, la Siberia, usurpando un pezzo d’Asia a cui non appartengono.
Quando la sera arriviamo a Vilnius ci sorprende un temporale nei pressi della Porta dell’Aurora. Ci ripariamo sotto le sue mura, luogo di pellegrinaggio cattolico perché ospita una rara icona della Vergine della Misericordia. Il temporale mi fa venire in mente il film di Milčo Mančevski, Prima della pioggia – dove la pioggia rappresenta metaforicamente la guerra civile in Jugoslavia –, che vinse il Leone d’Oro a Venezia nel 1994. Nel film, l’odio insensato non ha risparmiato neppure il remoto villaggio del protagonista: al suo ritorno scopre che i vicini con i quali è vissuto amichevolmente in gioventù sono ora considerati nemici. A ben vedere, è una maledizione dell’Europa rivivere i drammi del Novecento. Sarebbe bello immaginare una comunità europea davvero unita, solidale, coalizzata per combattere – se necessario – solo contro gli spettri peggiori della sua storia: il nazionalismo, l’imperialismo, il colonialismo e il fascismo.
Articolo di Francesco Sani e Beatriče Ramasauskaitė; Foto di Francesco Sani