Oggi si sente spesso parlare di street art, ma quasi nessuno ne conosce l’origine. Prima di Banksy, di Blu, di Keith Haring e Obey, l’arte di strada esisteva già, chiamata semplicemente “arte murale”. L’arte murale è sempre esistita: dalla preistoria con le pitture rupestri fino al medioevo sotto forma religiosa. Forme apparentemente così diverse sono però unite da un elemento che dà loro un medesimo significato. La loro funzione infatti è stata sempre di tipo narrativo: attraverso dei simboli e delle codifiche raccontava una storia, e con essa, un’interpretazione del mondo.
Facciamo un salto nel tempo. Nei primi anni del Novecento si sviluppa in America Latina un movimento popolare chiamato “Muralismo messicano” che ha come obiettivo quello di raccontare la storia del Messico attraverso la sperimentazione di nuovi linguaggi pittorici, restituendo così a chiunque la possibilità di fruire gratuitamente di un’opera e liberare così la produzione artistica dai salotti parigini e newyorkesi in cui negli ultimi anni era stata relegata. Con il muralismo messicano nasce un nuovo linguaggio di massa fatto di immagini. I temi che vengono trattati sono politici, sociali e socialisti. Queste avanguardie sperano attraverso la loro pittura di riuscire a cambiare il mondo, e in parte ci riescono. Questo movimento si diffonde in Uruguay, Argentina e soprattutto nel Cile degli anni settanta.
Nel Cile degli anni ‘70 il socialista Salvador Allende è candidato alla presidenza contro l’ex governatore Jorgi Alexandri, i cui intenti erano quelli di perseguire una politica conservatrice e liberista. Essendo quest’ultimo finanziato dagli Stati Uniti d’America, poteva permettersi una grande pubblicità sui giornali e sui manifesti di strada. Allende aveva ben poche possibilità di vincita. Si genera allora un movimento straordinario: in tutto il paese si formano le cosiddette “Brigadas Ramona Parra”, gruppi di persone che a dieci a dieci realizzavano sulle superfici della città dipinti murali, riprendendo i colori del Cile e facendo ricorrere simboli di esaltazione popolare: la colomba che rimandava alla pace, le mani che richiamavano il lavoro, le spighe che rappresentavano l’agricoltura, o la stella rossa, simbolo del socialismo.
Nessuno si aspettava che Allende avrebbe effettivamente vinto in quelle elezioni. Sostenuto anche da esponenti artistici come Pablo Neruda, Allende governò soltanto pochi anni, poiché fu vittima del colpo di stato organizzato da Pinochet nel 1973, che iniziò una politica di forte repressione contro le opposizioni, rendendosi responsabile di gravi crimini contro l’umanità. Dichiarò anche illegali quei i murales pieni di colore e li fece rimuovere tutti, coprendoli di bianco.
Chi riuscì a scappare da quella persecuzione si rifugiò nelle città di tutto il mondo, esportando l’arte murale in memoria di quei valori ormai repressi nel sangue. E qui arriviamo a Firenze. Nel 1978 a San Salvi, allora manicomio di Firenze, a cavallo dei giorni tra il 25 Aprile e il 1° Maggio, venne realizzato un murale in quello stile insieme a tutti i cittadini e alcuni esuli cileni. In quel murale trascrissero una poesia che Pablo Neruda dedicò specificamente alla città di Firenze e al suo Sindaco di allora Mario Fabiani: “La città”. La bellezza di questo tipo di murale sta proprio nel fatto che tutti possono partecipare alla sua creazione. A San Salvi come in Cile furono disegnati i contorni del bozzetto così che ognuno potesse riempire la sua parte di colore. Si respirava un clima di grande fermento, tanto che pochi giorni dopo fu approvata la Legge Basaglia (n.180), che segnò la fine della reclusione e della contenzione degli esseri umani nei manicomi.
Ancora oggi è possibile vedere quel poco che resta del murale, a San Salvi. Sul casottino semidistrutto di quello che era l’ex magazzino della Tinaia, si possono leggere alcune delle parole della poesia di Neruda e guardare ciò che rimane di quella forza popolare, di quella forza sognante e desiderosa di diritti, parità e libertà per tutti.
Articolo a cura di Camilla Castellani