Da Vogue a Pitti Uomo il contributo del fashion all’ambiente.
Questo mese la copertina di Vogue Italia ha scelto per la prima volta di avere un’illustrazione e non una fotografia. Otto artisti, dal fumetto alla pittura, si sono messi all’opera creando una storia di moda senza viaggiare, spedire e inquinare. Infatti, tutte le ventisei edizioni della celebre rivista hanno scelto di dedicare il numero di gennaio al tema della moda sostenibile. Il nuovo ordine è: basta con il mercato dell’usa e getta, comprare meno e comprare meglio.
Anna Wintour, la vulcanica direttrice di Vogue America, in tempi non sospetti, aveva esortato le maisons a venire incontro alle richieste dei consumatori. In particolare i più giovani dimostravano attenzione all’ambiente e sensibilità al processo produttivo dei capi.
Già perché questo settore è il secondo più inquinante nel pianeta, dietro solo alla raffinazione dei prodotti petroliferi, dato il grande consumo di energia e acqua. Ecco quindi che un minore impatto del ciclo produttivo dei vestiti è diventato imprescindibile per i brand dell’abbigliamento. Noti e meno noti hanno implementato la ricerca su nuove fibre, tessuti riciclati e controllo della filiera in ottica green.
La sfida di progettare capi di abbigliamento rispettosi dell’ambiente.
Anche a Pitti Uomo il motivo conduttore dell’edizione n. 97 è stato la moda sostenibile. Proprio alla Fortezza da Basso, durante la kermesse dedicata al fashion maschile, è stato presentato il progetto Time is Now alla presenza di Greenpeace, IED e Consorzio Italiano Implementazione Detox.
Le piccole imprese del settore tessile pratese affiliate si sono impegnate nell’eliminazione delle sostanze tossiche dalla produzione dei tessuti (una realtà che da decenni ha la tradizione del riciclo, pensiamo al cardato). Lo I.E.D. dal canto suo è impegnato nella formazione dei designers per la sostenibilità e una coscienza diversa della fruizione dei vestiti.
Oggi in commercio c’è troppo abbigliamento che non può essere riutilizzato perché pensato per una fruizione usa e getta. E un abito che a fine vita non più essere riciclato è “spazzatura”! I nuovi prodotti della moda devono aver caratteristiche che vengono da filiere disruptive. Giovani designers saranno formati per concepire in maniera consapevole abiti che a fine vita possono rinascere dandone vita a dei nuovi.
Progettare capi diversi per cambiare la mentalità di tutti è lo sforzo per il quale Chiara Campione, Corporate Unit Head di Greenpeace ha coniato il termine Lifestyle 1.5: indica il grado e mezzo di temperatura sotto la quale dobbiamo rimanere, secondo l’Accordo di Parigi per il Clima, per contenere il surriscaldamento del pianeta.
Dallo stile di vita però si possono prendere spunti per una cittadinanza attiva, evolvere da consumatori a cittadini, Citizen 1.5 quindi. Già, perché il 70% delle emissioni in atmosfera provengono dalle città. E nelle città vivranno i due terzi della popolazione mondiale secondo le previsioni al 2050. Nel luogo per eccellenza del consumo, questa è l’ultima chiamata per farlo in maniera consapevole, dopo che l’Occidente ha importato ai paesi emergenti il modello dello spreco.
Foto per gentile concessione di Dario D’Andrea