Un confronto generazionale nell’arte contemporanea tra de Pisis, Paolini e Vitone, attraverso le parole di Sergio Risaliti, direttore del Museo del Novecento.
Tre artisti, tre generazioni a confronto in un gioco di incastri e rimandi fatto di coincidenze iconografiche, strategie concettuali e passioni artistiche e letterarie: Filippo de Pisis, Giulio Paolini e Luca Vitone si incontrano al Museo del Novecento in un dialogo a tre voci, all’interno di un progetto espositivo visitabile fino al 7 settembre 2022.
Un progetto espositivo sorprendente e senza precedenti, che consente di approfondire la conoscenza di tre artisti apparentemente molto diversi tra loro, rileggendone la produzione in una prospettiva inedita. Tre mostre personali, separate ma interconnesse, che danno vita a un gioco di specchi e di confronti tematici.
Abbiamo intervistato il direttore del Museo del Novecento, direttore artistico e curatore del progetto, Sergio Risaliti perché facesse luce su questo originale colloquio artistico.
Il progetto espositivo in corso al Museo del Novecento ha al suo centro il dialogo tra Filippo de Pisis, Giulio Paolini e Luca Vitone: tre artisti, tre generazioni, tre voci diverse fra loro per stile ed epoca. Quali sono le difficoltà e le potenzialità di una curatela artistica del genere?
Il progetto conferma l’impostazione e la linea editoriale del Museo che opera su un ampio orizzonte, dai primi del Novecento all’attualità. L’obiettivo è quello di creare un dialogo tra gli artisti tramite opere e tematiche di stagioni diverse, coprendo un raggio storico e artistico molto importante. Questo approccio dà modo di cogliere meglio le continuità e discontinuità, ma anche le metamorfosi dei linguaggi da un’epoca all’altra, rintracciando inoltre i passaggi di testimone – e dunque delle sottili continuità – soprattutto nell’ambito dei contenuti e dell’iconografia. La Storia dell’arte è anche un confronto tra artista e artista e se smettessimo di guardarla con l’occhio del filologo, potremmo renderci conto che sono gli artisti stessi a costruirla e decostruirla appropriandosi di esemplarità precedenti, palesando affinità elettive con artisti e generi diversi, contemporanei o passati.
La difficoltà di realizzare un progetto come questo consiste nella necessità di liberare l’esercizio critico da schematismi e paradigmi superati per riaprire i giochi in una prospettiva sempre diversa, sollecitata dagli artisti stessi. Tra le potenzialità invece c’è sicuramente quella di rigenerare i modelli interpretativi di tematiche e artisti e ottenere dunque non solo “un’opera aperta”, come diceva Eco, ma una Storia dell’arte riaperta. Credo che il dado non sia mai tratto e che si debba sempre essere disposti a cambiare o ribaltare le regole del gioco e la prospettiva d’interpretazione.
Il confronto tra Filippo de Pisis, Giulio Paolini e Luca Vitone, avviene anche grazie all’allestimento di tre diverse esposizioni dedicate a ognuno di loro. Come nasce e come si costruisce un progetto espositivo così articolato e complesso?
Le fondamenta sono di circa 20 anni fa, mentre viaggiavo verso Torino per incontrare Paolo Fossati e Giulio Paolini. In treno rileggevo alcune pagine di Paolo Fossati dedicate a de Pisis nel libro Storie di figure e di immagini, in cui lo studioso si soffermava su un’interpretazione speciale dell’opera di de Pisis da cui emergeva l’idea che i suoi quadri fossero “quadri a chiave”, quadri rebus, in cui si combinano l’aspetto lirico della natura del pittore con un altro più concettuale, derivato dalla sua frequentazione con la metafisica di de Chirico e con l’esperienza parigina e la relativa vicinanza al Dada. Più tardi, quelle stesse riflessioni si sono combinate con l’incontro con Paolini, da qui l’idea di rileggere l’opera di de Pisis attraverso un confronto con quella del maestro genovese, che spinge verso una interpretazione inedita dell’arte di de Pisis e pone la base con cui sono state selezionate le sue opere. Ciò che emerge è un pittore che abbandona l’arte mimetica e ridimensiona la sua dipendenza dall’Impressionismo, lasciando intendere allo stesso tempo la sua vicinanza e assimilazione della ricerca e del linguaggio metafisico del movimento dadaista per cui il quadro non è più una finestra sul reale ma è come un piano di rappresentazione in cui mettere in scena composizioni costruite dalla presenza di oggetti, elementi enigmatici o risonanti.
Questa “messa in scena” definisce anche una narrazione molto vicina a un’allegoria, un quadro a chiave per l’appunto. Contestualmente, gioca anche con la mise en abyme degli strumenti del mestiere: il quadro diventa una sorta di atelier dell’artista e lo scopo è far vedere la tela rovesciata, di sbieco o costruire giochi di illusione in cui si può trovare sul fondo del quadro, al posto di un paesaggio, un altro quadro. Questo quadro nel quadro palesa le affinità elettive dell’artista con de Chirico, Poussin, Chardin, che vengono in questo modo citati come in una sorta di doppio. La stessa abilità appartiene anche a Paolini: ecco l’incastro, l’incatenamento che ha permesso di rileggere in modo inedito l’opera di de Pisis e allo stesso tempo ha reso evidente un’inaspettata vicinanza tra i due.
L’intervento di Vitone entra nella costruzione del progetto espositivo con una serie di opere site-specific e presenta quattro lavori in dialogo con le mostre di Paolini e de Pisis, ma più che alla produzione, Vitone sembra guardare alle personalità, agli interessi, allo spirito artistico, nonché agli atelier dei due maestri, facendosi così artefice di un’indagine sul ruolo che i due artisti hanno assunto nella memoria collettiva, oltre che nella sua personale. In che modo avviene questa citazione e omaggio?
Vitone si è incastrato perfettamente in questo duplice atto di cui abbiamo per de Pisis e Paolini. Infatti, Vitone ha sempre considerato Paolini come suo punto di riferimento e, al tempo stesso, non ha mai nascosto un particolare interesse e apprezzamento dell’opera di de Pisis, di cui promuove una diversa comprensione. L’arte di de Pisis è stata decostruita, entrando a far parte del progetto curatoriale: così ha preso forma la carta da parati con cui sono state allestite le sale, moltiplicando per decine di volte un’immagine di de Pisis alle prese con un ritratto all’interno del suo atelier. Su questa particolare carta sono installati i dipinti di de Pisis, in modo da creare un ulteriore gioco di specchi e messa in scena, in cui il quadro ritorna dentro l’atelier.
L’“illusione della superficialità” è il tema che crea un ponte tra le tre generazioni di artisti e costituisce il fil rouge che fa emergere un’inedita corrispondenza tra i linguaggi e le modalità “concettuali” dei tre autori. Ma cosa significa e come si manifesta per de Pisis, Paolini e Vitone? E qual è il ruolo dell’illusoria superficialità nell’arte? Forse è parte intrinseca e in qualche modo necessaria della pratica artistica stessa?
Proprio Vitone ha dedicato due opere rispettivamente a Paolini e a de Pisis che giocano sull’invisibilità e sull’illusione della superficialità. Nel primo caso, la polvere dello studio di Paolini è stata trasformata in pigmento con un evidente rimando a un elemento esistenziale, un memento mori che è anche la soglia tra visibile e invisibile, materiale e immateriale. Nel secondo caso troviamo una natura morta di de Pisis che Vitone ha scelto, ma che non è realmente esposta, bensì è solo richiamata dalla presenza di un gladiolo. Vitone ricrea dunque una suggestione olfattiva di un fiore leggermente appassito nel profumo che riempie la sala espositiva, recando ancora una volta il messaggio della caducità della vita. Si tratta di una traccia vagamente malinconica, di una profonda riflessione sul trascorrere della vita e sullo spengersi, sul passare del tempo, che è anche uno dei temi dominanti di tutta la mostra di Paolini. Paolini affida alla presenza dell’opera e al misterioso miracolo dell’arte e dell’immagine l’unica possibilità di certificare l’esserci nel presente, e addirittura il presente stesso.
Quali riflessioni possono scaturire da questo parallelo generazionale in merito allo sviluppo dell’arte contemporanea nell’ultimo secolo?
Ritengo che la mostra sia un bellissimo esempio di centralità nell’arte italiana di questa doppia dimensione, lirica e poetica che riguarda la riflessione sull’esistenza umana. Mette in luce la fugacità della realtà e allo stesso tempo fornisce una dimensione di costruzione concettuale e metafisica dell’opera artistica, che sia un dipinto, un’installazione o una manifestazione più astratta e performativa. La cosa interessante è che questa dimensione è una proprietà e un valore dell’arte italiana e costituisce una koinè, un linguaggio comune che dal passato arriva ai nostri giorni. Mi auspico che le nuove generazioni possano trarne uno spunto di riflessione e raccolgano il testimone per portarla avanti e rinnovarla.
Foto a cura del Museo del Novecento/ Ela Bialkowska – OKNO studio