Quaranta anni fa, il 13 giugno 1984, gli imponenti funerali di Enrico Berlinguer a Roma furono un evento epocale. Molti toscani e fiorentini non vollero mancare a quello che fu il requiem non solo per il grande segretario del Partito Comunista Italiano, ma probabilmente per la sinistra italiana.
“Un popolo intero trattiene il respiro e fissa la bara/
Sotto al palco e alla fotografia/
La città sembra un mare di rosse bandiere/
E di fiori e di lacrime e di addii”.
I funerali di Berlinguer – Modena City Ramblers, 1994
Vogliamo partire da qui, dalla fine, una fine gloriosa. Così cantava il gruppo musicale folk Modena City Ramblers, in una canzone del 1994, raccontando una giornata storica, quella dei funerali di Enrico Berlinguer. Il testo parla del viaggio in treno dall’Emilia a Roma, un treno stracolmo di gente in lutto che abbandona tutto per dare l’ultimo saluto al “compagno Berlinguer”.
Il viaggio fu un avvicinamento a una conclusione, la fine di un’era, l’idolo era scomparso e con lui sparivano molte, troppe cose. I funerali di Roma furono un crogiolo di lacrime di ogni estrazione sociale. Vi parteciparono un milione e mezzo di persone divise in tre cortei, che raggiunsero piazza San Giovanni in Laterano per assistere alla cerimonia finale. Un milione e mezzo di operai, agricoltori, braccianti, compagni, ma anche impiegati, dirigenti e altissime personalità. Presenziarono tutte le figure politiche italiane e cinquanta delegazioni straniere, tra cui le principali pedine della scacchiera mondiale, come il premier cinese Zhao Ziyang, il presidente dell’Unione Sovietica Michail Gorbačëv e il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Yasser Arafat.
Le facce erano strane, solcate non solo dal dolore, ma da un nervo di rabbia, come se ci fosse già la reale consapevolezza che da quel momento in poi le cose sarebbero cambiate. E le cose cambiarono, eccome se lo fecero.
Ma chi fu Enrico Berlinguer? Che cosa aveva rappresentato per quel fiume impetuoso di gente che piangeva la sua morte? Perché il suo addio fu un momento così impattante nella storia del nostro Paese?
Semplicemente ha plasmato l’anima politica italiana del secondo dopoguerra, un uomo dall’eloquenza magnetica, una mente acuta, con una determinazione incrollabile.
Nato a Sassari nel 1922, Berlinguer crebbe in una Sardegna in fermento, permeata dall’ineluttabile ideale di giustizia sociale. Fu proprio questo ambiente a forgiare il suo impegno politico, fin da giovanissimo.
Nei tumultuosi anni del dopoguerra emerse come luminosa forza guida, il PCI (Partito Comunista Italiano) trovò in lui un leader carismatico capace di proporre e perseguire un socialismo riformista, discostandosi dagli stereotipi legati alle follie dei regimi totalitari.
Paladino della democrazia, fu un vero e proprio ponte tra le istanze operaie e le istituzioni repubblicane, la sua abilità nel destreggiarsi tra gli ostacoli della farraginosa burocrazia italiana, lo rese un gigante, rispettato e stimato anche dai suoi acerrimi nemici.
Si potrebbe raccontare dell’uomo Berlinguer, della sua passione per la poesia. Ai fiorentini piacerebbe molto la storia di Berlinguer amante e cultore del calcio, innamorato della maglia della sua terra, il Cagliari di Gigi Riva, contro quei giganti dei grandi club, così attivo da partecipare spesso a discussioni di tattiche e strategia.
Ma vogliamo riportare Enrico Berlinguer proprio a Firenze, provando a rivivere quegli interminabili minuti di comizio, in due diverse occasioni, imprimendo le sue parole nella mente, quelle di un uomo che, decine di anni fa, raccontava il futuro.
Piazza della Signoria, 17 febbraio 1980, Enrico Berlinguer si prepara a parlare a una folla riunitasi per manifestare in nome della pace. In Italia il pacifismo non è ancora un fenomeno di massa come negli Stati Uniti, ma lo è indubbiamente tra i più giovani. Sono circa duecentomila quelli che lo applaudono con ardore nel cuore pulsante di Firenze, segnando un nuovo sodalizio tra Berlinguer e il mondo giovanile.
All’invasione dell’Afghanistan, infatti, il 3 novembre 1979, il Partito Comunista Italiano aveva reagito con un documento granitico e accusatorio: «Di fronte all’intervento sovietico nell’Afghanistan, che costituisce una violazione dei principi di indipendenza e sovranità nazionale, il PCI ribadisce il proprio netto dissenso. Resta più che mai valida la fondamentale verità che i processi di liberazione dei popoli non possono che essere opera dei popoli stessi» (Documento della direzione del PCI, pubblicato su L’Unità del 6 gennaio 1980, NdR).
In quei mesi di ghiaccio rovente si inasprivano le tensioni tra URSS e USA, il tenzone stava per procedere con la minaccia del dispiegamento dei missili a testata nucleare, ed Enrico Berlinguer ribadì, in piazza, con voce di tuono, la posizione del PCI, assolutamente ostile a ogni situazione di conflitto armato.
Piazza Santa Croce, 26 aprile 1981, decine di migliaia di persone manifestano per la Legge 194, la Federazione Giovanile del PCI invita alla protesta: l’aborto è un reato o un diritto?
Enrico Berlinguer è l’oratore della giornata, inizia il suo discorso porgendo le sue scuse per non affrontare le solite tematiche legate all’attualità politica, affermando di sentire il bisogno di parlare di un argomento che investe il futuro dei giovani italiani, come i referendum per ridiscutere l’integrità della Legge 194 sui diritti all’interruzione della gravidanza.
Il cielo è grigio su Firenze, arrivano le prime gocce di pioggia ad accompagnare il grido di rabbia e orgoglio del grande Berlinguer: «Dobbiamo impegnarci a fondo per battere alle urne le forze conservatrici, oscurantiste e reazionarie che, se vittoriose, non esiteranno a tentare di colpire altre conquiste democratiche e sociali».
La battaglia per la “194” andava ben al di là del contenuto specifico della legge, riguardava una radicale nuova scelta politica e culturale.
«Minacce di involuzione derivano dall’andamento complessivo della vita della società, dalla crisi economica e dagli indirizzi dominanti della vita politica e culturale, dalle spinte particolaristiche, dalla frantumazione corporativa, dalle esasperazioni individualistiche, da questi fenomeni che percorrono il corpo sociale e minano la convivenza civile, indebolendo lo spirito di solidarietà e la lotta per la giustizia sociale… Questi fenomeni spingono la società a un imbarbarimento, da cui non ci si salva chiudendo gli occhi cercando scampo nell’evasione, rinchiudendosi in se stessi, cioè rinunciando a intervenire negli eventi in cui la storia ci ha immesso e arrendendosi.»
C’è un vecchio nastro, registrato dal vivo, una cassetta, di quelle che non usano più. Ma se si ha l’occasione di conoscere qualche custode degli antichi mangianastri, si possono riascoltare le parole pronunciate da Enrico Berlinguer in persona, a Firenze, in quell’aprile di un lontano 1981.
Lasciamo al lettore la libertà e il diritto di interpretare queste frasi che risuonano, epiche, sui muri della nostra città, in ogni angolo del nostro Mondo.