In questi giorni, a Firenze e non solo, sta facendo molto discutere la frase pronunciata dalla direttrice della Galleria dell’Accademia, Cecilie Hollberg, che nel corso della conferenza stampa di lunedì scorso sui risultati del museo nel 2023, parlando della condizione di turismo a Firenze, ha paragonato la città ad una “meretrice”. E subito fiumi di polemiche e critiche aspre da parte delle istituzioni, soprattutto da parte del Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano che ha dichiarato:
“Reputo gravi e offensive la parole della direttrice della Galleria dell’Accademia, Cecilie Hollberg su Firenze. Firenze è una meravigliosa città che rappresenta una parte rilevante della nostra identità e storia nazionale. Offenderla significa colpire tutta l’Italia e i nostri sentimenti. La direttrice Hollberg, nominata dal mio predecessore, rappresenta lo Stato e il patrimonio italiano e non può adoperare questo linguaggio. Valuterò, alla luce della normativa vigente, tutte le iniziative del caso”.
Anche il web si è scatenato tra meme e vignette satiriche sull’affermazione della direttrice ma cosa ha detto davvero la Hollberg? Con quel termine “meretrice”, la direttrice sicuramente non intendeva “offendere” né la città né, né il patrimonio italiano, tantomeno i nostri sentimenti di italiani, come pensa il nostro caro buon Ministro, che forse non ha riflettuto a lungo prima di esprimere la sua condanna ufficiale.
Se ci sforziamo infatti di contestualizzare la parola incriminata, ascoltando per intero il discorso della Hollberg durante la conferenza stampa, quello che ha detto è ben lontano dall’offesa a Firenze, anzi forse la sua critica -e questo probabilmente potrebbe essere il tasto dolente- era rivolta alla tipologia di turismo che c’è a Firenze, ma anche in tutte le altre cosiddette città d’arte in Italia, e a chi questo turismo lo gestisce:
“Vorrei che la città tornasse un po’ ai cittadini e non fosse solo schiacciata dal turismo, il turismo andrebbe gestito. Stiamo parlando di una città dell’Unesco, […] in questi ultimi otto anni la città si è molto alienata dalle sue origini, non c’è più un negozio, una bottega normale ma tutte esclusivamente per turisti con gadget, souvenir e questo andrebbe frenato. È già tardi e non si torna più indietro, perché dopo che una città è diventata meretrice sarà difficile farla tornare vergine. E se non si mette adesso un freno assoluto, non vedo più speranza”.
Questo concetto, a differenza di qualcuno che non l’ha capito o più probabilmente ha voluto fare orecchie da mercante, i fiorentini l’hanno capito bene e generalmente si trovano anche d’accordo con le parole della direttrice dell’Accademia. Perché chi a Firenze ci vive e ci lavora lo sa bene che l’affermazione della Hollberg è una realtà concreta. Parliamo di una forma di turismo cosiddetto “massivo”, il modello esistente in Italia, un turismo che trasporta nel Bel Paese molta gente rapidamente, fornisce alloggio in strutture ricettive vecchie e non ottimizzate, con attrattive turistiche scarsamente gestite in modo sostenibile, intendendo sotto il concetto di sostenibilità sia l’aspetto ambientale, che sociale, che economico.
“Ma come, il turismo non porta soldi?” Sì, ma qui stiamo parlando di “overtourism” cioè dell'”l’impatto del turismo su una destinazione, o parti di essa, che influenza eccessivamente e in modo negativo la qualità della vita percepita dei cittadini e/o la qualità delle esperienze dei visitatori”. Se infatti ci si ferma alla superficie delle cose è innegabile che i turisti portino indotti in città perché vengono qua a spendere i loro soldi. Ma in questo discorso i disagi del sovraffollamento turistico sui cittadini, dove li mettiamo? Per fare un esempio banale, possiamo citare i vari Airbnb, in cui sono stati trasformati praticamente tutti gli appartamenti del centro storico e il conseguente rincaro esorbitante del costo degli affitti, perché si sa, gli affitti brevi permettono di guadagnare molto di più agli affittuari. Esiste una vera e propria emergenza abitativa (di cui vi abbiamo già parlato qui) e sono sempre meno cittadini residenti in città e dunque i servizi vanno di pari passo. Migliaia le botteghe artigiane e gli esercizi commerciali, così come i servizi destinati ai cittadini, scomparsi negli ultimi anni e sempre più ristoranti, minimarket e souvenir shop per i turisti. Siamo sicuri che questo faccia bene all’economia di questa città e più in generale del nostro paese? No, e i cittadini lo sanno bene.
In questo contesto le parole della Hollberg quindi hanno colpito prima di tutto un’amministrazione che si sta preoccupando di fare cassa prima che del benessere dei suoi cittadini. Ma serviva veramente una dichiarazione in conferenza stampa della direttrice del museo che ospita il fotografatissimo David, uno dei musei più importanti di Italia e anche del mondo, per farci aprire gli occhi?
Beh, la risposta è chiaramente no. Chi lavora nel turismo o nella cultura a Firenze, ma anche chi la città la vive lo sapeva benissimo già, conosceva già la condizione a cui è sottoposta Firenze e ne soffre: decine di migliaia i turisti che vengono a Firenze e in Toscana (senza neppure sapere che Firenze è in Toscana!) spesso inconsapevoli e incoscienti del perché lo facciano, solo per il nome di “culla del Rinascimento”. E nel frattempo continuiamo ad assistere a decisioni discutibili dell’amministrazione, comunale e non solo, volte sempre più all’accoglienza del turista, trasformando questa città e le altre in tanti parchi giochi, sempre più morte e depauperate.
In tutto ciò però, da che pulpito arriva la predica? La stessa Cecilie Hollberg infatti, durante la conferenza stampa in cui è stata pronunciata la famigerata frase, aveva fatto vanto dei traguardi raggiunti dall’Accademia nel 2023, con oltre due milioni (!) di biglietti staccati, specificando che durante la sua direzione, dal 2015 ad oggi, “gli ingressi hanno avuto un incremento del 42%, grazie anche a diverse scelte strategiche come le aperture serali che si sono tenute durante i periodi estivi. Nel 2015 si registravano 1.415.409 visitatori, mentre al 31 dicembre 2023, il museo ne ha contati ben 2.013.974, un trend che è andato ad aumentare in maniera esponenziale, nonostante lo stop dei due anni di pandemia. Già ad ottobre scorso era stato raggiunto il numero di 1.719.640, avuto nell’anno dei record che è stato il 2018. E questi sono solo i numeri rilevati dai biglietti staccati, senza considerare tutto il pubblico che ha partecipato ai vari eventi organizzati dal Museo, durante i lunedì, giorni di chiusura”.
Per chi non lo sapesse inoltre, da quest’anno il prezzo del biglietto di ingresso è stato aumentato e sono in corso lavori di intervento sul museo per l’apertura di nuove uscite di emergenza, cosa che permetterà di aumentare il numero di visitatori presenti all’interno del museo, portandolo oltre le 750 presenze attuali. Considerazione ovvia e scontata: aumentare le uscite di emergenza non aumenterà però i metri quadri del museo, portando quindi la situazione all’interno, già ampiamente sovraffollata soprattutto in alta stagione, ad una condizione veramente complessa, non sicura per la conservazione e la tutela delle opere d’arte e che renderà la fruizione del museo ancora più ostica anche per il pubblico stesso.
E qui arriva l’altro grande problema: com’è pensato e gestito l’ente museo al giorno d’oggi. Secondo l’attuale definizione di museo dell’ICOM (international council of museums) infatti, il museo è “un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che compie ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale, materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano in modo etico e professionale e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze“.
Quanti dei musei che abbiamo visitato, almeno in Italia, possono dire di rispecchiare questa definizione davvero? Praticamente nessuno o solo parzialmente. Ma questo che c’entra? C’entra perché la vera funzione del museo non dovrebbe essere quella di luogo da selfie, come sempre più è diventato, ma come un luogo di trasmissione di valori, da cui uscire arricchiti, prima di tutto come cittadini. Questa è l’importanza della cultura nel suo valore storico e civico, prima di quello estetico. Il museo non dovrebbe essere un luogo-contenitore tematico ma piuttosto un insieme complesso di servizi volti alla creazione e alla condivisione di conoscenza, che fornisca al visitatore gli strumenti per diventare un fruitore attivo, in grado di farsi un’idea personale e una consapevolezza perché qualsiasi esperienza senza consapevolezza non lascia niente. Insomma qui i numeri non c’entrano niente; aumentare l’accesso alla cultura non significa aumentare la capienza di un museo, significa fornire ai visitatori gli strumenti per essere fruitori consapevoli. E invece, ancora una volta si guarda solo al profitto, a Firenze e nei suoi musei e purtroppo non solo.
Forse se partissimo dal trattare le nostre città, i nostri musei e in generale i nostri luoghi identitari non come se fossero tante Gardaland, potremmo anche non chiamarle meretrici e non fare gli ipocriti che si scandalizzano pure?