Franco Zeffirelli: quel che la cupola ispirò

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Un ritratto del regista scomparso. Il rapporto intenso tra Zeffirelli e Firenze.

Certe appartenenze non si possono scegliere. Non si possono scegliere la famiglia di origine, la nazionalità, i tratti somatici. Certe altre invece, sì. Si può scegliere un nome d’arte, un credo politico, una città da abitare. Perfino una nuova identità. Ogni artista, a un certo punto, si trasforma: esce da ciò a cui appartiene e diventa altro, quello che sceglie di essere. Appartenenze e scelte, un’altalena su cui Zeffirelli si è beffardamente dondolato tutta la vita.

Era nato fuori dal matrimonio e, per questo, la madre lo fece registrare con il cognome inventato di Zeffirelli, lasciandosi ispirare dall’Idomeneo di Mozart, in cui compaiono gli ‘zeffiretti’: il cognome gli si adatta talmente bene che diventa ben presto il suo nome d’arte.
Studia a Firenze, prima con Giorgio La Pira e poi all’Accademia di Belle Arti, dove il suo talento artistico inizia già a emergere. Ma è solo dall’incontro con Luchino Visconti, nel secondo dopoguerra che la sua cifra artistica arriva alla ribalta del pubblico. Proprio con Luchino Visconti, Zeffirelli avrà anche una lunga e travagliata storia d’amore, consumata – in tutti i sensi – nella villa romana del regista.

Un talento irrequieto che trova espressione e spazio nel teatro: l’opera è il suo regno, il mondo lo acclama, perfino la reticente Maria Callas si lascerà convincere a tornare sulle scene soltanto grazie a lui. D’altronde il dramma e lo splendore, la depressione e lo sfarzo, la passione e la tragedia sembrano essere quegli stessi sentimenti che si agitano nel suo animo: «Ho sempre pensato che l’opera sia un pianeta dove le muse lavorano assieme, battono le mani e celebrano tutte le arti» dice. Una drammaticità vivida, maestosa e imponente che si percepisce negli allestimenti, nelle opere, nei progetti abbozzati. Nei film.
Se il teatro, in particolare la lirica, sono il suo habitat naturale, anche il cinema lo tenta: tra il 1996 e il 1999, infatti, dirige due film di grande successo, Jane Eyre e Un tè con Mussolini, l’ultimo ambientato a Firenze e liberamente ispirato a fatti della sua infanzia.
Continua indomito a lavorare fino al 2019: muore il 15 giugno, giusto il sabato precedente alla prima della Traviata di cui ha curato la regia.

Illustrazione © Pietro Tatini

Una vita consacrata all’arte ma non solo: in lui il fuoco arde anche per un’altra passione, quella politica. Cattolico, anticomunista, molto vicino al centro-destra e amico intimo di Silvio Berlusconi, viene eletto Senatore della Repubblica nel 1994 nelle liste di Forza Italia e riconfermato nel 1996. Nonostante fosse dichiaratamente omosessuale, non ha nessuna simpatia per il movimento gay che critica aspramente nei suoi interventi pubblici.
L’arte, la lirica, il teatro, il cinema, la politica… il quadro non sarebbe completo se non citassimo, tra i grandi amori di Zeffirelli, quello per la sua città di origine: Firenze.

A partire dalla fede calcistica, con la devozione più completa e totale alla Fiorentina e l’avversione (nemmeno poi tanto celata) per la Juventus, Zeffirelli nel corso della sua lunga carriera ha ripetutamente e indiscretamente omaggiato Firenze. Che fosse il set di uno dei suoi film, oggetto di documentario o fonte di ispirazione, Firenze ha avuto un significato profondo per il regista. In una delle sue frasi più famose Zeffirelli dice: «Quando sento che mi prende la depressione, torno a Firenze a guardare la cupola del Brunelleschi: se il genio dell’uomo è arrivato a tanto, allora anche io posso e devo provare a creare, agire, vivere».

A giudicare dai suoi numerosi successi, quella cupola deve averla guardata infinite volte. Alla Firenze alluvionata, per esempio, Zeffirelli ha dedicato un toccante docufilm: Per Firenze, appunto. Un emozionatissimo Richard Burton, in un italiano un po’ malfermo, fa appello alla coscienza di tutti per salvare quella città che è stata vittima – anche se non succube – di una tragedia: l’alluvione del ’66. Seguono immagini in bianco e nero che mostrano devastazione, ma anche forza e volontà di riscatto. Era un omaggio doveroso che l’artista voleva rendere a quella città a cui egli apparteneva. O a cui aveva scelto di appartenere.
Una figura dai forti contrasti, capace di suscitare sentimenti altrettanto contrastanti nel suo pubblico. Successi, insuccessi, cadute rovinose e iperboliche ascese: un’altalena continua e incessante da cui, a un certo punto, a 96 anni anche lui è dovuto scendere, mentre era ancora in movimento.
Resta però pur sempre quella cupola, a fare da ispirazione agli artisti di ieri, di oggi e – speriamo – di domani.

Testo di Rita Barbieri

Illustrazione di Pietro Tatini