In un pomeriggio di sole, proprio nel cuore dell’Oltrarno, un artista serbo alto e robusto scende dalle scale per aprirci le porte di casa sua e del suo studio. Conosciuto da tutti in Santo Spirito, Nebojša offre a FUL una rara opportunità: intravedere la sua oasi artistica privata.
Nebojša è Bogdanović è nato a Tuzla, Bosnia ed Erzegovina, nel 1977 in una famiglia di militari. Dopo aver vissuto gli anni delle guerre balcaniche del 1991 e del 1999 – che hanno frantumato la Jugoslavia – nel 2004 si è laureato in pittura alla Facoltà di Belle Arti di Belgrado. Poi si è trasferito a Firenze nel 2005, spinto dalla sua curiosità e dalla voglia di proseguire gli studi di Belle Arti, dove si è diplomato. Da quel momento in poi, Nebojša vive e crea nella nostra città, vantando personali e collettive in Italia, Serbia e Belgio.
Sul tavolo stracolmo di “strumenti del mestiere”, troviamo una serie degli ultimi lavori, combinazioni di acrilico e carboncino. Le porte sono coperte coi disegni che potrebbero essere progetti per sculture, i muri sono tappezzati coi dipinti e oggetti senza un ordine tematico e cronologico. Si nota il bisogno di uscire dal quadro, le tecniche utilizzate da Nebojša variano dalla pittura tradizionale al tradimento del dipinto come opera bidimensionale, si vedono diverse tele con oggetti attaccati oppure sculture dipinte, oggetti raccolti e assemblati, dipinti e non…
La vita artistica di questo autore è spesso nascosta dietro le porte chiuse, quindi mostrare la sua cella creativa protetta e intima è un’occasione davvero rara. Lì, ricoperte da centinaia di lavori, le pareti e gli angoli della sua casa e del suo studio raccontano ricche e varie storie, influenze ed emozioni, di cui abbiamo discusso con l’artista.
Guardando i tuoi lavori, noto molta energia e forti emozioni. Cosa rappresentano?
L’Arte è un modo per spiegare il mondo, oppure per darne il senso . È un percorso parallelo alla scienza, alla religione. Ho sempre avuto il bisogno di esprimermi in questo modo, il lavoro nasce da una forte esigenza, che è sempre esistita in me. Ricordo che anche all’asilo ero l’unico bambino che non dormiva, disegnavo sempre qualcosa.
Come nascono i tuoi lavori: di solito hai un’idea prima di disegnare o nascono spontaneamente?
Di solito nascono senza un progetto. A volte parto anche dall’ombra che il mio corpo disegna sulla tela o sulla carta, o da una macchia, oppure lo faccio con un mio gesto semi controllato o incontrollato. Tuttavia, ci sono anche opere che riprendono un tema, ma in realtà sono una minoranza. Dopo tanti anni di lavoro sui disegni astratti, gestuali, mi sono accorto che alla fine torno sempre, più o meno, agli stessi motivi e simboli: cerchi, croci, vortici, svastiche e spesso al tema dell’unione degli opposti. Dieci anni fa, ad esempio, partendo da queste forme ho realizzato un’opera modulare, che consisteva in 286 tele che creavano un alfabeto che ricopriva una grande parete del Museo Pecci di Prato.
Strada facendo sono nati nuovi motivi che via via si sviluppano, si trasformano. Recentemente, in una residenza artistica, ho realizzato una serie di disegni di un tronco d’albero che, piano piano, diventava sempre più astratto fino a trasformarsi in un simbolo che continua a modificarsi.
Come arrivi a un punto di creatività?
Credo che si accumulino le sensazioni, le impressioni, le esperienze che poi si trasformano tutte in quella che diventa espressione artistica. Non ho dei rituali particolari o almeno non ne sono cosciente. Ci sono periodi in cui lavoro molto, a volte subito dopo un caffè mattutino, vado in studio e ci sto tutto il giorno e così per mesi. Ci sono periodi invece in cui mi fermo del tutto. Non sono riuscito a trovare una logica in questa alternanza, ma in generale, credo che chi vive una vita autentica, chi fa le cose che sente veramente di dover fare, possa creare l’arte migliore, un’Arte vera.
Un’esperienza così forte come quella della guerra in Jugoslavia ha influenzato in qualche modo la tua arte?
Già nella prima domanda mi hai chiesto delle emozioni che sono il carburante dell’operare creativo, credo. Una situazione come quella della guerra porta sicuramente forti emozioni che possono anche trasformarsi in una straordinaria espressione artistica. Sono sicuro che l’energia dei miei lavori può essere collegata al conflitto che c’era intorno a me ma può anche essere il risultato di un conflitto interno. Se vogliamo prendere un esempio dalla letteratura, è difficile trovare il conflitto interiore più intenso di quello che visse Dostoevskij, e grazie a quel conflitto creò un’arte meravigliosa.
E invece gli altri tuoi lavori recenti, più colorati, più giocosi, da cosa sono influenzati?
Ritorno per un attimo alla domanda precedente che riguarda la guerra e l’influenza sull’arte: c’è stata una tendenza interessante notata nelle creazioni di alcuni artisti durante la guerra nei Balcani. Non è il mio caso, ma alcuni artisti a Belgrado durante i bombardamenti avevano bisogno di fare un’arte molto delicata, con dei bei motivi leggeri, tipo i fiori, come se fosse un modo di scappare dagli orrori. In altri casi, l’esperienza della guerra ha probabilmente contribuito alla creazione di un’arte violenta, drammatica.
La presenza dei lavori diversi, che vedi, è legata anche al fatto che ho sempre dipinto, disegnato “come mi veniva da fare”, non mi sono mai detto “voglio fare solo questo” o “questa cosa qua sono io”.
Sono sicuramente stato influenzato da artisti importanti, da colleghi all’accademia, dai maestri che ho incontrato strada facendo. Senza dubbio, è inevitabile. Credo però che alla fine tutto sfocia in una poetica e credo anche di aver lasciato un’impronta personale in tutte queste opere che possono, a prima vista, sembrare molto diverse.
Ho notato una cosa interessante quando ho realizzato l’ultima mostra personale Doppio Gioco a Perugia, dove ho esposto due gruppi di opere: una serie di dipinti gestuali monocromi e un gruppo di oggetti colorati. Il pubblico era diviso, alcuni preferivano assolutamente i lavori pittorici tradizionali, gli altri invece si divertivano con le opere tridimensionali. Devo dire che mi piace che opere diverse abbiano “fans” diversi.
Cosa consideri un successo e cos’è un fallimento per un artista?
Ritornerei di nuovo sulla questione dell’autenticità. Anche se il successo spesso significa realizzarsi sul mercato e avere un riconoscimento da parte delle istituzioni, direi che il vero successo sarebbe potersi veramente dedicare alla propria ricerca, in maniera autentica, senza compromessi. Rinunciare alla vita autentica è il vero fallimento, credo.
Nella storia serba – che è come tutte le storie, una storia di guerre – la parola sconfitta tradizionalmente non esiste come la pensiamo oggi. La parola ovviamente esiste, però in una battaglia persa non si è sconfitti se si combatte sacrificandosi, se si testimonia. Quindi si vince o si testimonia, si è sconfitti se si abbandona il campo di battaglia.
Che rapporto hai come artista con Firenze?
Firenze ha sicuramente lasciato un segno importante in me, la città – un grande museo – il Rinascimento che ho studiato molto e che ho raccontato a tanti, le persone che ho conosciuto, gli amici, i maestri, gli amori. Tuttavia, a livello lavorativo, Firenze è anche una trappola, perché anestetizza un po’, fa addormentare con i propri ritmi lenti, con la chiusura nei confronti del nuovo, oserei dire abbia un’ostilità nei confronti di qualsiasi cambiamento…
Ultimamente sto pensando di spostarmi da qualche altra parte, comunque credo sempre in Toscana, quindi non lontano da Firenze, che io vedo come una bella vecchia signora, ben truccata e profumata.