“Gaza stories”, intervista al reporter fiorentino Gianluca Panella

Gaza © Gianluca Panella

Intervista a Gianluca Panella, il fotoreporter esperto della questione palestinese che, dopo l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023, è tornato a documentare il conflitto in corso.

Gianluca Panella, classe 1976, è un fotografo indipendente fiorentino che, alternando linguaggi legati al reportage classico e alla fotografia di documentazione, da molti anni racconta contesti di guerra e conflitto. A FUL ha parlato del suo lavoro più recente nei territori palestinesi occupati da Israele, già parte di una più lunga ricerca visiva, e della sua professione, del senso di responsabilità che ne deriva e della necessità di umanizzare le notizie che riporta.

Nel 2014 il suo lavoro Gaza BlackOut è stato premiato con il World Press Photo nella sezione “General News Stories”. Le sue foto sono state pubblicate su quotidiani e riviste internazionali più famosi del mondo, tra cui Washington Post, Newsweek, The Guardian, The Observer, Die Zeit, Der Spiegel, La Stampa, Il Corriere della Sera.

Come fotoreporter hai potuto osservare e testimoniare quanto accade nel secondo fronte palestinese aperto, quello della Cisgiordania occupata. Dopo il 7 ottobre, cosa hai trovato che non ti saresti aspettato? 

Il mio ultimo lavoro in Palestina è stato nel 2018 e a Gaza, per la “Marcia del ritorno”. Quindi era da molti anni che non mi occupavo della Cisgiordania. Non solo ho trovato delle cose diverse ma un Paese completamente cambiato – anche Israele – e sotto tantissimi punti di vista, a cominciare dalle strade: lavori e cantieri hanno reso irriconoscibili certi posti.

Ho trovato un Paese geograficamente e socialmente mutato e ciò che è successo al tessuto sociale è irrimediabile, un cambiamento assoluto. Anzi, più che di cambiamenti radicali, parlerei di peggioramenti radicali: dovuti a dei nodi che non erano mai stati sciolti prima. I problemi sono i soliti; si sono incancreniti e deteriorati e ciò ha determinato, a parer mio, la loro irreversibilità. 

Gaza © Gianluca Panella

Rispetto al contesto israeliano?

In Israele ho notato le maggiori differenze dal punto di vista socio-culturale. Ricordo una parte molto importante della società israeliana, quella moderata, magari favorevole alla soluzione a due Stati e comunque rispettosa anche dei diritti umani dei palestinesi. Una componente che aveva coscienza di quello che stava succedendo – dove avere coscienza di ciò che accade non significa contestare l’esistenza di Israele ma sapere che è uno Stato che applica dei metodi aderenti ai modelli dell’occupazione militare.

Ecco, quella componente è la stessa che oggi dice che tutto sommato va bene se muoiono anche i bambini a Gaza perché tanto diventeranno tutti terroristi; la stessa che un tempo considerava eccessivi quei personaggi di estrema destra – difensori e assoluti sostenitori dell’occupazione – che oggi sono al governo. Persone che stanno vedendo avversarsi il loro sogno di consolidamento di Israele a scapito di un non-Stato palestinese, con una intenzionalità ormai sdoganata. E le stesse manifestazioni a Tel Aviv su cui ho lavorato di recente sono contro Netanyahu che è considerato il responsabile di quello che è successo il 7 ottobre.

Gli israeliani che manifestano vogliono le sue dimissioni ma non necessariamente sono per una soluzione a due Stati che ormai è vista come una conclusione sempre più lontana. Credo che la domanda che dovremmo farci tutti è: dopo il conflitto – perché ci sarà, prima o poi, la fine delle ostilità armate – cosa sarà di Gaza? Come sarà amministrata la convivenza tra due popoli che ormai hanno sempre più cicatrici?

Gaza © Gianluca Panella

A proposito dei “bambini che diventano terroristi”, nei reportage da Tulkarem e Jenin hai dato molta attenzione all’affiliazione giovanile ai vari gruppi armati della Cisgiordania occupata. Sebbene si tratti di un fenomeno in crescita, soprattutto nei campi profughi, non temi che questa narrazione possa oscurare le altre forme di resistenza non armata ed essere strumentalizzata dall’Occidente? 

Io sono contro la violenza, contro le armi in generale, ma invito a smontare la narrazione per cui esisterebbe una resistenza di buoni, pacifici, e una di “cattivi”. Ricordo di aver conosciuto una persona straordinaria che gestisce, vicino al campo profughi di Tulkarem, un circolo ricreativo dove porta avanti un importante lavoro culturale.

Questa è senza dubbio una delle tante facce della resistenza palestinese: c’è l’uomo del circolo ricreativo ma anche quello che attacca dei militari a un check point o semplici cittadini israeliani a una fermata dell’autobus – porto un esempio estremo, lo so. Ma si stanno producendo nuove leve, stanno nascendo nuovi gruppi a Jenin e sono sempre di più i giovani che non temono Israele.

Di fatto, hanno sempre meno opportunità e quindi meno da perdere. E il discorso da fare è proprio questo. Ci dobbiamo rendere conto del perché questo stia succedendo, è un fenomeno che è conseguenza di molto altro.

Gaza © Gianluca Panella

Eppure il discorso sulle radici della questione palestinese non ha trovato molto spazio dopo il 7 ottobre, soprattutto a livello mediatico. 

Certo ma  il punto non è tanto il fenomeno di per sé ma il perché. Quando gli israeliani dicono che i bambini di Gaza diventano tutti terroristi, finiscono tutti con Hamas… Be’, è vero. Ho passato nella Striscia dieci anni della mia vita; Hamas è l’unica opportunità di questa gente. Il problema è: come mai? Con Francesca Mannocchi abbiamo lavorato a un reportage a Tulkarem dove abbiamo conosciuto un bambino che giocava sulle macerie di una moschea distrutta.

Il ragazzo chiese a Francesca quanti anni avesse suo figlio e venne fuori che avevano la stessa età. Lui le domandò cosa volesse fare da grande e Francesca rispose che suo figlio avrebbe voluto fare il cantante. Quando lei chiese la stessa cosa a lui, il bambino rispose: “Voglio fare il combattente, diventare un martire per il mio Paese”. Raccontare questo è importante perché se non lo facciamo nascondiamo soltanto il problema.

E certamente è una storia che arriva con molta più forza delle tante pratiche pacifiche perché purtroppo, rispetto all’uomo che porta avanti una resistenza non violenta nel circolo ricreativo di Tulkarem, un bambino di sei anni che da grande vuole fare il combattente è più allarmante. Io lo devo poter affrontare senza per questo sminuire gli altri aspetti della resistenza, come quella culturale. 

Gaza © Gianluca Panella

Nel 2012 hai iniziato il progetto Bijanibiha attraverso il quale hai indagato anche la resistenza femminile palestinese armata e non. È un lavoro che si inseriva all’interno di una ricerca più ampia che reputi conclusa?

Sì, anche quella femminile può essere una resistenza armata. Bijanibiha è un lavoro che parte da un progetto più ampio sulla deumanizzazione del nemico e che si chiama Behind the lath meh, che vuol dire dietro il passamontagna di quello che, nell’immaginario collettivo, è un terrorista. Con il mio lavoro ho voluto vedere chi c’è dietro questa maschera per mostrare che non c’è un mostro.

La parola “terrorista” vuol dire tutto e niente: il terrorista è considerato peggio del peggior criminale. E abbiamo anche fatto la guerra al terrorismo cioè a un’entità che non si sa bene neanche cosa sia, allora chi c’è dietro il terrorista? C’è un uomo, tale e quale a noi. Un idraulico, un tassista; ci sono persone che conducono una vita normale e poi fanno parte della resistenza, anche dentro Hamas, che chiamano cellula terroristica ma tecnicamente non lo è, poiché è il governo!

Il ministero della sanità è di Hamas, il ministero della cultura è di Hamas, ecc. Quindi se fai il medico in ospedale o l’insegnante a scuola o magari il professore universitario sei uno di Hamas per Israele. Poi le sue azioni possono assomigliare alla forma terroristica – ma da collocare sempre all’interno di un conflitto asimmetrico. Gli attentati sono anche gli attacchi di un drone (israeliano, Ndr) in un campo profughi perché per definizione è un atto che deve generare terrore nel tessuto sociale.

Quindi non so se esiste il terrorista ma di sicuro esiste l’atto terroristico e questo lo possono fare anche gli eserciti. Il problema è uno solo ed esiste da sempre in ogni conflitto: è quello della deumanizzazione del nemico, che nasce nel momento in cui una società educa a pensare che l’altro non sia abbastanza umano quanto te. Nella società israeliana la gente ha perso completamente empatia. 

Gaza © Gianluca Panella

In Gaza Blackout hai deciso di spingere l’osservatore a “confrontarsi con la difficoltà dell’oscurità, richiedendo uno sforzo per leggere le immagini, così come una persona a Gaza farebbe per camminare per quelle strade [buie]”. Gaza Blackout è un progetto dalla scelta stilistica forte, in cui porti l’osservatore a guardare precisamente dove vuoi. In questi mesi trascorsi nei territori occupati della Palestina, hai mai pensato a una nuova chiave di lettura, altrettanto provocatoria e immersiva, con cui racconteresti Gaza oggi? 

Se dovessi entrare a Gaza adesso probabilmente sentirei il peso di dover raccontare le cose come sono e forse non ci sarebbe spazio per un progetto più artistico. Stanno succedendo cose talmente gravi che non mi viene in mente nient’altro che la documentazione

Gaza Blackout l’ho fatto perché in quel periodo  ho passato molto tempo all’interno della Striscia, anche a non fare nulla perché spesso ero in attesa dei contatti dei combattenti che mi facessero entrare nelle loro famiglie, nelle loro storie e quindi non potevo lasciare Gaza. Così ho avuto tutto il tempo di maturare un progetto per raccontare quel disagio che era diventato lento, estenuante. Non c’erano più i riflettori puntati, nessuno si preoccupava di quel posto, quindi comunque avevo modo di pensare in termini progettuali. 

Hai raccontato che aver frequentato Romano Cagnoni ti ha lasciato un grande senso di responsabilità. Cosa vuol dire essere un fotogiornalista responsabile?

Sono cresciuto in un periodo storico in cui i fotogiornalisti erano quelli che pubblicavano su certe riviste, facevano un lavoro di approfondimento. Da quel momento a quando io ho iniziato, mi sono formato e ho creato la mia carriera, questa professione è cambiata moltissimo, si è trasformata completamente. Forse, anche per la mia età, sono uno degli ultimi della vecchia scuola e penso che il metodo di lavoro di un buon fotogiornalista sia quello dell’accuratezza. Per me il fotogiornalismo bisogna farlo a passi lenti e ben distesi. 

Gaza © Gianluca Panella

Quali sono per te le foto più difficili?

Ci sono delle foto che mi hanno rovinato la salute! Sia per ciò che accadeva mentre le ho scattate che per la mia vita successiva. Lo scatto è un istante bloccato eppure ci sono delle immagini che creano uno spartiacque, dopo le quali niente è più come prima. 

Alcune foto hanno aumentato quel sentimento di responsabilità, anche a dei livelli eccessivi, facendomi perdere il contatto con la realtà. Ci sono tanti fattori che si condensano in quell’istante che poi è rappresentato nella foto. È un istante pieno di sentimento perché c’è il momento in cui ho scattato e poi tutto quello che viene dopo. Le emozioni provate durante lo scatto si trasformano subito dopo, mutano nel tempo; ti fanno vedere la vita e le persone in modo diverso. Un centoventicinquesimo di secondo che può influenzare la tua vita e la tua emotività per gli anni a venire o per sempre.

Quali possibilità vedi per questo approccio, accurato e responsabile, al fotogiornalismo?

Oggi i tempi non permettono più un atteggiamento di cura – e da qui deriveranno altri problemi. Però l’accuratezza non è solo quella del fotografo. Negli anni di pace ho cercato a lungo di proporre i miei lavori di Gaza ma non interessavano a nessuno. Ci vuole una certa accuratezza del pubblico, del sistema editoriale… Insomma è a livello sociale che manca la cura per le cose. Per me però non è un’opzione: è l’unico modo di fare questo lavoro. 

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