Il prossimo febbraio torna in tour in Italia il celebre musicista bosniaco, con una data anche a Firenze grazie all’organizzazione di Music Pool. È l’occasione per sentire dal vivo il suo ultimo album, “Three Letters from Sarajevo”, un omaggio alla sua città natale.
Goran Bregović, nato a Sarajevo da padre croato e madre serba è il classico esempio del multiculturalismo che ha caratterizzato la vecchia Jugoslavia. Nei secoli, questa regione è stata l’unica nella storia dell’umanità a vedere una frontiera diretta tra Cattolici, Ortodossi, Ebrei e Musulmani, sviluppando una cultura meticcia unica che i nazionalismi etnici hanno poi provato a negare.
Nonostante la guerra civile nel 1991 abbia smembrato la delicata repubblica federale che per cinquant’anni aveva tenuto insieme gli “Slavi del Sud”, questa radice culturale unica non è stata cancellata. La musica e le sonorità di Bregović nascono da questa tradizione ma, prima di essere consacrato a livello internazionale come eroe dell’etno-music con la composizione delle colonne sonore di film di successo come “Underground” di Emir Kusturica o “Train de vie” di Radu Mihăileanu, bisogna ricordare che il musicista si afferma come chitarrista di un gruppo hard rock.
Prima di divenire il Goran Bregović che tutti conosciamo era, infatti, il leader dei Bijelo Dugme, band di grande successo negli anni ’70 in tutta la Jugoslavia (tanto che persino il Maresciallo Tito si scomodò per andare a vederli dal vivo durante un loro concerto a Zagabria!).
La band, dopo quindici anni di attività e sei milioni di dischi venduti, si sciolse nel 1989, ironia della sorte precedendo di poco la fine della loro nazione. La carriera solista di Bregović comincia proprio quell’anno con la colonna sonora del film dell’amico Emir Kusturica “Il tempo dei gitani”, vincitore poi della Palma d’Oro a Cannes.
La musica di Goran Bregović deriva da temi zigani e slavi ed è il risultato della fusione della tradizionale musica polifonica dei Balcani con il tango e le bande di ottoni. Il suo estro è la capacità di “rubare” i ritmi della musica zigana e popolare rivisitandola come creazione moderna con venature folk ed elettriche.
Numerose le collaborazioni, da Iggy Pop ai C.S.I., da Samuele Bersani ad Asaf Avidan. Così dopo ben trenta colonne sonore e diciannove album solisti, nel 2017 Bregović è tornato con un nuovo disco. “Three Letters from Sarajevo” è un album simbolico con cui l’artista bosniaco rompe il tabù della frontiera e mette in primo piano il tema della convivenza tra religioni diverse, attraverso l’incedere voluttuoso degli arrangiamenti corposi, ricchi e maestosi per testi che trasudano di pathos, sofferenza, riconciliazione e fallimenti. Si tratta di un’opera concettuale, un concerto per tre violini solisti e la Goran Bregović Wedding and Funeral Orchestra. L’idea delle tre lettere che richiamano alle tre religioni è simbolicamente rappresentata dagli assoli di violino suonati rispettivamente da Mirjana Neskovic (Serbia), Zied Zouari (Tunisia) e Gershon Leizerson (Israele).
Quest’opera è un omaggio alla sua città, in cui l’artista è tornato dopo una lunga assenza cominciata proprio con lo scoppio delle guerre nei Balcani, l’assedio dal 1992 al 1995, la fine delle ostilità e il lento ritorno alla normalità nella capitale per eccellenza del multiculturalismo. Bregović non ha mai smesso di sentirsi figlio di quella Sarajevo che nella storia europea rappresenta un esperimento di convivenza unico, come dice lui stesso nel cortometraggio realizzato per promuovere l’album: “Dio non ci ha insegnato come convivere pacificamente, è una lezione che dobbiamo imparare da soli”. Una dichiarazione che fa il pari con quella espressa durante una recente intervista, al Lucca Summer Festival 2016, quando un giornalista gli chiese cosa restava dell’esperienza della Jugoslavia, a venticinque anni dallo scoppio della guerra civile che ha smembrato il suo paese:
“Quando il tuo paese crolla miseramente e scompare, ti rendi conto immediatamente che il concetto di Patria non è né politico né geografico. È, piuttosto, un territorio emozionale. E il mio non è mai cambiato. Delle rivoluzioni degli ultimi vent’anni, io me ne frego. La mia patria è ancora compresa tra Lubiana e Skopje. La Jugoslavia era una creazione delicata ma positiva, bisogna essere in malafede per non ritenerla tale”.
In quest’assunto, oltre al pensiero di Bregović, c’è la filosofia della sua musica. Una musica che unisce le culture, con le radici in quel paese dove l’odio etnico ha diviso e prodotto la più grande tragedia moderna nel nostro continente. E la più grande vergogna per l’Unione Europea che non l’ha impedita.