Ivano Fossati ha scritto alcune fra le più belle canzoni della storia recente della musica italiana. Nato a Genova nel 1951, ha alle spalle quarant’anni di carriera. Ha scritto brani anche per altri artisti. Alcuni di loro hanno deciso di omaggiarlo con l’album “Pensiero stupendo – le canzoni di Ivano Fossati interpretate dai più grandi artisti italiani”, pubblicato l’indomani del suo ultimo concerto al Piccolo Teatro di Milano, nel 2012. Lo abbiamo incontrato per parlare della nuova scuola genovese, dell’industria musicale contemporanea, di De André e del suo incarico da professore.
Il portone bianco dell’aula magna dell’Università di Scienze Umanistiche a Genova è chiuso, ma fuori arriva limpida la voce del professore. È un docente che molti conoscono bene in tutta Italia, per via del suo passato in musica. La sua voce è entrata nelle case degli italiani non tanto attraverso la televisione, quanto con cassette, cd e vinili prima, YouTube e Spotify poi. Ho l’impressione che potrei distinguerla anche fra le urla e i chiacchiericci del mercato della città vecchia, dalla facoltà raggiungibile attraverso la vicina Via del Campo.
La lezione del corso “Musica Pop: senso critico, omologazione e industria” è finita. La porta si apre, studenti e studentesse lasciano l’aula. Faccio capolino e saluto: “Ciao Sacha. Vieni, sediamoci qui”. È proprio lui: l’avrei riconosciuto anche bendato. Ho ascoltato le sue canzoni per la prima volta da bambino quando, in uno dei tanti viaggi in macchina con i miei genitori, toccava a “La mia banda suona il rock” farci compagnia. Il CD era una raccolta di grandi successi dei cantautori italiani degli anni ‘70/’80 e a Ivano Fossati seguivano, fra gli altri, Lucio Dalla, Rino Gaetano e Mia Martini.
Una nuova scuola genovese.
Da dove cominciare l’intervista? Come riporta il documentario La Nuova Scuola Genovese (in cui compare anche Fossati), a Genova sembra sia nata una nuova scuola di cantanti: sono rapper, non cantautori, eppure pare che fra le due generazioni ci siano dei punti in comune. E delle differenze, com’è normale che sia. E allora, cosa ne pensa Ivano Fossati, fra i nostri cantautori più importanti, di quella che alcuni critici chiamano la “nuova scuola genovese”?
“Per certi aspetti, i rapper sono più coraggiosi di quanto siamo stati noi cantautori” – esordisce Fossati. “Eravamo vincolati dalla forma canzone, che concede meno spazi rispetto all’espressione del rap, libera e duttile. I rapper non hanno neanche problemi di sintesi, invece noi eravamo costretti a sintetizzare, a trasferire i nostri pensieri in un contenitore di quattro minuti circa. Il rap ha rotto questo schema: gli artisti hanno preso lo spazio di cui hanno bisogno per esprimere quello che vogliono.
Negli anni Novanta, abbiamo provato anche noi a scrivere canzoni più lunghe. Ha funzionato raramente, perché avevamo un rapporto stretto con il pubblico e chi ci ascoltava dimostrò che non sempre gradiva variazioni alla classica forma canzone. Pubblico e autori, siamo tutti legati alla sintesi. Abbiamo dato spazio a pensieri dirompenti, forti e dissacratori, purché sintetici”.
I rapper sembrano avere un approccio diverso dal mainstream, non solo per la forma delle loro canzoni: frequentano meno di altri artisti media e kermesse, talvolta i loro testi sono impegnati e sembrano voler fare delle loro differenze una cifra distintiva (in alcuni casi, un vanto). Un movimento di rottura, appunto, con il resto del panorama musicale.
Ma cosa succede se consideriamo gli altri generi? Per l’affermazione dell’artista, pare spesso determinante il passaggio dai talent televisivi, che oggi sembrano aver preso il posto di quei locali (buona parte dei quali oggi sono chiusi) in cui la generazione di Ivano Fossati ha fatto la gavetta, e che hanno dato ai cantautori un contributo importante alla loro carriera. Chiedo a Fossati che cosa è cambiato rispetto al tempo della sua generazione: “Dal punto di vista dell’industria musicale siamo in un cambiamento epocale. Che i rapper siano in grado di fare musica con pochi mezzi è positivo: ai miei tempi, le produzioni dei dischi erano costosissime, per cui certi lavori particolari o addirittura sperimentali non incontravano il favore delle case discografiche, spesso scettiche e perplesse sul successo che avrebbero potuto avere.
La digitalizzazione ha facilitato l’ingresso nel mondo della musica. Molti dei rapper hanno avviato la carriera con pochi strumenti, autoproducendosi e incidendo le canzoni nelle proprie camere da letto, senza il supporto di tecnici specializzati e studi di registrazione. La produzione di canzoni e album a basso budget ha aperto le porte a tanti ragazzi e ragazze che fino agli anni ‘90 avrebbero trovato più difficoltà in ingresso nel mondo musicale”. Nonostante i testi canzonatori, la generazione di Fossati sembra aver goduto di minor libertà artistica rispetto ai rapper contemporanei. Chi ha potuto permettersi di mettere nero su bianco – come Fossati – parole che impattassero nelle coscienze altrui, lo ha fatto perché nelle grazie di una casa discografica. Dai provini fatti solo con la chitarra ai costi esorbitanti per produrre i lavori con un’orchestra, allora pesava la mancanza di uno stadio intermedio che oggi invece, nel mondo del rap, è popolato.
Il rischio omologazione per non compromettere la carriera.
Fuori da questo genere però, nei sentieri già tracciati dalle major, è fondamentale avere successo già dalle prime canzoni: altrimenti, il rischio è di dover dire addio alla carriera. Ma quanto è salutare avere un’asticella così alta già dalle primissime produzioni? Secondo Ivano Fossati “è un problema, a cominciare dall’omologazione. Tutti rincorrono il successo, che pensano di ottenere facendo quel tipo di musica in quel tipo di modo; ma molti degli artisti conosciuti in tutto il mondo sono diventati celebri perché hanno sposato ideali anticonformisti. Andare controcorrente paga, magari tardi ma paga”. Omologazione tracciata dai paletti messi sulla strada di chi si avvia alla carriera musicale, che rendono difficile cambiare traiettoria o intraprendere un percorso personale. “È terribile creare dei colli di bottiglia perché qualcuno decide che cosa funziona e cosa no”, riflette Fossati.
“Trovo inconcepibile dare una sola chance ai giovani artisti per emergere: se non è buona la prima, probabilmente non li rivedremo più. Se facessimo il conto di tutti coloro che sono scomparsi giusto il tempo di averci provato, probabilmente rimarremmo stupiti dalla quantità. La generazione da cui provengo ha lavorato tanto sul talento, grazie anche alle scelte coraggiose di alcune case discografiche, come la RCA.
Le major oggi: una mentalità più televisiva che discografica.
Lucio Dalla ha avuto successo al settimo album: al giorno d’oggi, chi avrebbe la pazienza di aspettare un artista senza riscontro per tutti questi dischi? Fra i ragazzi che vengono eliminati dalle giurie, ci potrebbe essere un altro Dalla, un altro Battiato, a cui non viene concesso il tempo per maturare”. Le etichette investivano sugli artisti quando le produzioni erano più costose, non lo fanno oggi che i costi sono più contenuti. E allora perché oggi un cantante deve avere successo fin dai suoi primi passi? “A causa della velocità, a sua volta figlia di una mentalità più televisiva che discografica”, afferma Fossati.
“L’industria musicale oggi conta meno rispetto a 30 anni fa e il baricentro dell’attività musicale è spostato sulla televisione e sui suoi tempi. Programmi come Sanremo o i talent prevedono una competizione basata sulle canzoni, che mai dovrebbero essere uno strumento per competere. In questi format c’è chi vince e c’è chi perde, e il pubblico resta collegato per vedere come va a finire”!
Per gli artisti che popolano il mainstream resta centrale l’esposizione mediatica, oggi amplificata dai canali digitali. Una netta differenza fra la generazione dei cantautori italiani e quelli di oggi, che secondo Fossati è figlia dei tempi: “Negli anni ‘70-’80 c’era la possibilità di stare lontano dai media e fare la propria carriera. I casi emblematici sono Lucio Battisti e Mina che, pur stando lontano dai riflettori, arrivavano dritti al cuore della gente. La musica era talmente centrale nella curiosità del grande pubblico che bastava incidere dei dischi per potersi affermare come cantante. Oggi chi canta è costretto a stare in scena 365 giorni l’anno; i tour sono permanenti, iniziano e non si chiudono più. Un tempo, quando le tournée duravano al massimo due anni, il pubblico coltivava una forma di curiosità verso l’artista, oggi svanita anche per via della presenza costante sui social.
Gli artisti diventano dei vicini di casa e così è più difficile creare un mito, a cui servono sia le gesta compiute sia l’assenza del personaggio: così è stato per i grandi divi americani nati dagli anni ‘40 in poi, che ancora oggi sono considerati tali anche perché continuano a negarsi. Per paura di sparire, in nome di quei 15 minuti di celebrità di cui parlava Andy Warhol, oggi siamo disposti a tutto”.
Tuttavia, almeno fino a qualche anno fa, arrivare fra gli ultimi classificati nel festival per eccellenza della canzone italiana, Sanremo, non significava dire addio alla carriera. È il caso di Vasco Rossi, di Zucchero e di altri che, pur non avendo entusiasmato, hanno poi riempito palazzetti e stadi. Un successo maturato su altre vie e che sarebbe stato tale – probabilmente – anche senza Sanremo. Ci sono anche i casi opposti, di artisti e band che partecipano alla kermesse sanremese, ottengono un buon posizionamento in classifica e, proprio quando la strada si fa in discesa, la favola finisce. Fossati ha partecipato a Sanremo con i Delirium nel 1972, con il brano “Jesahel”.
Un anno dopo, all’apice del successo, lascia la band. Come mai? “I motivi sono tanti”, racconta Fossati. “Avevamo vent’anni, eravamo disorganizzati, senza manager e produttore. Avevamo poca consapevolezza di quello che stava succedendo. Partecipare al festival fu per noi un errore: avevamo una canzone che, probabilmente, avrebbe funzionato lo stesso anche senza Sanremo. La nostra casa discografica ci convinse ad andare, e passammo velocemente da avere un pubblico di ragazzi e ragazze degli anni ‘70 attaccato alla nostra musica, a un pubblico più vasto e eterogeneo. Un cambiamento difficile da gestire, per cui decisi di lasciare la band”.
Dalla vecchia alla nuova scuola genovese.
Fra punti in comune e differenze, dalla vecchia alla nuova scuola genovese c’è una costante che sta sullo sfondo e lega fra loro le diverse generazioni: la città. A Genova, città portuale, nel secondo dopoguerra gli americani hanno portato alcuni dei primi dischi incisi oltreoceano; la vicinanza della Liguria con la Francia ha favorito il contatto con gli chansonnier francesi; qui ha trovato accoglienza una delle prime comunità trans italiane.
Il clima di vivacità (oggi affievolito in tutta Italia, ma che a Genova e a Bologna è più vivido che altrove), ha favorito la nascita di tutte le esperienze musicali che negli anni hanno conquistato una fama nazionale. Fossati conferma che, negli anni ‘70, Genova era piena di artisti di primo livello ed è stato il primo posto dove, ancor prima che a Napoli, i musicisti hanno suonato il blues: “I locali in cui si facevano le jam session di blues elettrico erano tantissimi. Io ho conosciuto gli altri musicisti genovesi prendendo parte alle jam, all’epoca ero uno dei pochi che suonava il flauto. Così sono nati i primi gruppi, come i New Trolls e i Matia Bazar.
C’erano anche dei chitarristi talentuosi (come Nico di Paolo e Vittorio De Scalzi, membri dei New Trolls, ndr), gente che ha poi collaborato con artisti di fama nazionale e internazionale. Qualcuno, negli anni, è diventato anche produttore. La Genova di allora aggregava non solo band e cantanti, ma anche le persone che ruotavano attorno al mondo della musica: grafici, pittori, giornalisti. C’era contaminazione, e da queste situazioni nascevano lavori importanti”.
Lavori che hanno lasciato il segno, come alcune canzoni diventate famose in tutta Italia, grazie anche ai testi scritti con maestria, in alcuni casi inseriti nelle antologie scolastiche. A me da bambino è capitato più volte di conoscere nuove parole attraverso le canzoni, come “crinoline” ne La mia banda suona il rock, o “miserere” in Bocca di Rosa di Fabrizio De André. Parole scelte con cura per testi scritti con un linguaggio raffinato. Chiedo a Ivano Fossati che rapporto ha avuto la sua generazione con la lingua: “Un rapporto stretto, sia perché volevamo differenziarci da quella che era la canzone di più largo consumo, sia perché molti di noi provenivano dal liceo classico. Avevamo la presunzione e la velleità di mettere nei testi quello che avevamo imparato a scuola. Volevamo raccontare le nostre storie utilizzando anche dei termini ricercati”.
Se alcuni punti in comune sembrano unire cantautori di ieri e rapper di oggi, dal quadro descritto da Fossati sembra che siano le differenze a imperare fra la sua generazione e i protagonisti di oggi della musica mainstrem. Ci sono molte persone, soprattutto coloro che con le canzoni dei cantautori sono cresciuti, che lamentano una mancanza di sostanza e di contenuti nelle produzioni moderne. Ammesso e non concesso che sia così, ho sempre il dubbio che si possa rimpiangere gli anni passati solo perché eravamo più giovani e non necessariamente perché la musica e il mondo – i rimpianti, in genere, sono a 360° – fossero migliori.
Perché criticare il cambiamento che, giusto o sbagliato che sia, avrà comunque la sua ragion d’essere? “Io non penso che si debba avere paura dei cambiamenti” – riflette Fossati. “Anche noi, figli degli anni ‘60, quando siamo arrivati con le chitarre elettriche a fare rumore, eravamo una novità per quegli anni. Siamo stati trattati come coloro che avrebbero distrutto la buona musica di allora. Bisogna avere la mente elastica per capire che nel cambiamento si nasconde qualcosa che dovremmo cercare di capire, magari con un po’ di pazienza, invece di giudicare. Io ho le mie idee, ma non mi sento di dire che la musica di oggi non ha sostanza: forse è una sostanza diversa dalla nostra.
Oggi gli artisti sono forse più distaccati dal testo di quanto non lo fossimo noi, e la loro comunicazione avviene probabilmente attraverso il ritmo, la musica, l’atteggiamento. Le novità musicali possono inizialmente disorientare, ma non dovrebbero fare paura: noi che eravamo considerati una disgrazia per la musica, quella battaglia l’abbiamo vinta. Serve tempo per capire i cambiamenti”.
Fabrizio De André, un artista punto di riferimento per tutti i musicisti.
Quest’anno ricorre il 25esimo anniversario della morte di Fabrizio De André. Fossati ha scritto insieme a lui l’album “Anime Salve”, e nella versione in studio compare anche la sua voce, nella traccia che dà il nome al disco, ad affiancare quella di De André. Sarà l’ultimo album di Faber, prima della morte avvenuta l’11 gennaio 1999. “Cosa ti manca di più di De André?” – chiedo a Fossati.
“La prima cosa da rimpiangere è per il livello in cui era in grado di esprimersi: sarebbe aumentato ancora negli anni a venire, se fosse rimasto con noi. Non solo: Fabrizio era un artista che alzava l’asticella, costringendo gli altri ad alzarla a loro volta. Oggi manca qualcuno che sia così autorevole, da costituire un punto di riferimento per cercare di fare sempre meglio”.
Ivano Fossati l’esperienza dietro la cattedra.
Ho un’ultima domanda per il professore Fossati. Ritiratosi dalla scena musicale ormai da anni, ha sposato alcuni progetti allettanti, come l’album “Mina Fossati”, uscito nel 2019. Ha anche accettato l’incarico come professore all’Università di Genova. Come sta andando l’esperienza da docente?
“Al corso gli studenti sono partecipi e interessati. Nessuno di loro frequenta tanto per fare, hanno dovuto affrontare una selezione. Le lezioni scorrono bene: un po’ parlo io, un po’ dialogo con loro. Non abbiamo potuto accettare tutte le richieste di partecipazione, può darsi che ripeteremo il corso l’anno prossimo. Per il resto, di impegni ne ho ben pochi: all’orizzonte c’è un docufilm, ma non so se lo farò. Il progetto più grande che ho è quello di stare con la mia famiglia: dopo aver lavorato ininterrottamente per 48 anni, ho voglia di stare con loro”.
*FUL ringrazia al professore Andrea Aveto e al Preside della Scuola di Scienze Umanistiche dell’Università di Genova per l’aiuto a realizzare quest’intervista.
Cover: Foto Press.