LA FIRENZE COLONIALE

La toponomastica cittadina è ricca di richiami al triste passato coloniale dell’Italia fascista, retaggio di un imperialismo straccione che non deve essere nascosto dal luogo comune degli “italiani brava gente”.

Siamo al Convento di San Francesco a Fiesole: osservandola in un giorno come questo, col cielo terso e dall’alto, Firenze appare remota e silenziosa. Un gruppo di studenti americani approfitta dei gradini per bersi del prosecco, versato generosamente in semplici bicchieri di plastica. Guardando il panorama – e immaginando come potrebbero vederlo questi turisti – è facilissimo cedere alle suggestioni di antichi stereotipi, tanto triti e ritriti quanto mai del tutto scomparsi: in un posto così bello, infatti, non possono che abitarci degli italiani-brava-gente: un popolo solare, ridanciano e ospitale… Ma ora, voltando le spalle a Firenze e guardando dentro al convento, si viene immediatamente rapiti da una grossa stele, posta all’ingresso del chiostro quattrocentesco. E che ci riporta istantaneamente a una memoria scomoda, urticante, problematica sia da gestire che da raccontare:

“Con la benedizione del sommo pontefice Eugenio IV nel 1439 partirono da questo convento per l’Etiopia a portarvi la luce di Cristo i frati minori Alberto da Sarteano e Tommaso Bellacci da Firenze […] 9 maggio 1938”.

Ecco: questo tentativo di reportage prende le mosse proprio da qui. Dalla celebrazione di una supposta continuità storica fra i missionari del XV secolo (partiti esattamente da questo luogo alla volta dell’Etiopia) e l’infame guerra d’aggressione, combattuta dall’Italia fascista nel 1936 e che sarebbe culminata nella tronfia proclamazione di un Impero. Non sarà questo il luogo per spiegare un tema complesso come l’epopea coloniale, di cui l’Italia si fece promotrice tra il 1882 e 1960 (quando anche la Somalia, ultimo possedimento d’oltremare, ottenne definitivamente l’indipendenza). Ci basti tenere a mente alcuni tasselli fondamentali. Limitandosi all’Africa, l’Italia ha conquistato con la forza – e grazie al beneplacito anglofrancese – una serie di colonie: Eritrea (1890-1947), Somalia (1890-1960), Libia (1911-1943) ed Etiopia (1936-1941).

Ciascuno di questi territori è stato interessato da lunghe ed estenuanti campagne di conquista, che hanno visto le truppe del Regno d’Italia penetrare in profondità e occupare le colonie in tempi non sempre velocissimi. La Libia, ad esempio, è stata conquistata nel corso di un ventennio, così come anche le colonie dell’Africa Orientale. L’Etiopia, dal canto suo, sarebbe stata sottomessa in modo molto più veloce al secondo tentativo, contando su strategie più moderne e sull’uso indiscriminato di armi non convenzionali (come le bombe all’iprite e le granate caricate ad arsina). La storia del colonialismo italiano è un collage di luoghi esotici, figure bislacche e grotteschi eccessi di vanagloria.

Pertanto, forse, il modo migliore per ricordarlo è scorrere attraverso i cimeli che ha disseminato a giro per Firenze, senza preoccuparsi troppo se si tratti di una statua, un edificio, un monumento o una semplice iscrizione. Partiremo quindi da qui, da Fiesole, per scendere in città e toccare con mano una serie di tracce ancora ben visibili, che ci aprono squarci su un passato spesso taciuto o liquidato con una scrollata di spalle. La prima tappa di questa rassegna è il quartiere di Campo di Marte, poi proseguiremo fino alle Cure, allo Statuto, a Rifredi e quindi, in un moto vagamente ondulatorio, all’Oltrarno e al centro storico. Ai piedi della collina da cui siamo appena scesi, troviamo quasi subito un edificio abbastanza enigmatico.

A due passi da Piazza Edison, infatti, si trova uno spiazzo dall’aria monumentale. Un edificio di bella fattura razionalista si erge di fronte a una rotonda. Siamo in largo Luigi Braille, e quel palazzo – decorato con sontuosi altorilievi che celebrano la ricchezza di risorse delle colonie – è l’ex-Istituto Agronomico per l’Oltremare. Fondato come Istituto Agricolo Coloniale (1904), esso aveva lo scopo di favorire la razionalizzazione delle colture nei possedimenti africani. Caduto l’impero coloniale, tale edificio sarebbe rimasto un organo del Ministero degli Esteri, adibito all’assistenza per gli emigranti italiani dell’America Latina e, negli ultimi anni, un polo di consulenza per progetti di cooperazione internazionale.

Proseguendo da qui, si raggiunge abbastanza presto lo stadio Artemio Franchi (che prima della guerra portava il nome del martire fascista Giovanni Berta) e, superata la piscina comunale Costoli, si arriva in viale Malta, dove è situato uno dei bar storici del quartiere. Il Caffè Dogali, infatti, esiste fin dal remoto 1914, quando venne fondato dal trisavolo degli attuali titolari. La battaglia a cui il locale deve il nome rappresenta probabilmente uno dei momenti pivotali del colonialismo italiano.

Combattuta il 26 gennaio 1887 durante la prima espansione in Eritrea, è passata alla Storia come un massacro e commemorata come un martirio: quando il Ras Alula Engida investì il forte italiano di Saati per respingere l’invasione coloniale, a difenderlo c’erano poco più di 700 uomini e 2 cannoni. La conta dei caduti fu drammatica da ambo le parti: le truppe del Negus – pur vincendo formalmente lo scontro – ne contarono 1.071; fra gli italiani, invece, ci furono 430 morti (commemorati in patria come i Cinquecento). Questo curioso documento di memoria famigliare – e quindi privata – fa da contraltare al ricordo decisamente più istituzionale rammentato da via Dogali, una traversa di viale dei Mille, intitolata appunto al celebre evento storico.

Da lì, attraversando i binari delle Cure, ci si ritrova ben presto proiettati in un ambiente la cui toponomastica pullula di memorie coloniali. Fra lo Statuto e Rifredi, infatti, le intitolazioni non ci lasciano che l’imbarazzo della scelta: molte sono le strade che portano ancora il nome di personaggi più o meno legati al colonialismo. Si va da via Cardinale Guglielmo Massaia (missionario per 35 anni e, nel 1846, primo Vicario Apostolico di Galla) a Via Antonio Locatelli (aviatore morto nella campagna del 1936), passando per le varie intitolazioni a Luigi Michelazzi (martire dell’Etiopia, partito volontario e ricordato anche in una targa nella sua scuola, il Liceo Michelangiolo), Carlo Piaggia (curiosa figura di esploratore freelance, che partì dalla Lucchesia nel 1851 per rifarsi una vita nell’Oltremare), Carlo Del Prete (aviatore che partecipò, appena quindicenne, alla guerra Italo-Ottomana del 1912) e Reginaldo Giuliani (cappellano militare che non si fece sfuggire davvero nessun evento: fu presente sia all’impresa di Fiume, sia alla Marcia su Roma sia, infine, alla Campagna d’Etiopia). Proprio in cima a via Reginaldo Giuliani, peraltro, si trova l’antico Istituto Chimico Farmaceutico Militare, fondato originariamente a Torino ma spostato a Firenze nel 1931.

In questo luogo, ai tempi delle colonie, si produceva soprattutto il chinino, alcaloide derivato naturalmente che serviva a curare la malaria (uno dei maggiori ostacoli, bisogna dire, alle velleità di conquista nel Corno d’Africa…). Abbandonando Rifredi lungo l’itinerario che porta alla Stazione Santa Maria Novella, raggiungiamo quindi piazza Adua e da lì, a strettissimo giro, l’obelisco di piazza dell’Unità. Adua, per molti italiani, è un nome estremamente familiare: nell’ultimo secolo è stato utilizzato per la toponomastica, i cinema, i bar e addirittura come antroponimo. In sole due sillabe, di fatto, è racchiuso un intero immaginario, che, tanto per cambiare, ricorda una sonora sconfitta sul campo.

La battaglia di Adua fu il momento culminante della campagna d’Abissinia del 1896, quando il Negus Menelik II spezzò in modo quasi irreversibile i piani coloniali del Regno d’Italia. Si stima che in quella singola battaglia gli italiani abbiano avuto più perdite che in tutte le tre guerre del Risorgimento messe insieme (circa 7.000 caduti in un solo giorno!). L’Obelisco che sorge nella limitrofa piazzetta, invece, venne eretto nel 1882 per celebrare l’Unità d’Italia e tutte le successive guerre che la neonata nazione avrebbe dovuto affrontare. È tragicamente ironico, quindi, considerare che le tre iscrizioni ivi apposte abbiano celebrato proprio le squallide campagne d’espansione in Africa, con un riferimento sia a Dogali, sia ad Adua, sia alla Guerra Italo-Turca.

Attraversando il centro e facendo un po’ zig-zag fra una sponda e l’altra dell’Arno, troviamo altri due monumenti simili a quest’ultimo. Il primo è il gruppo scultoreo in bronzo che sorge al centro di piazza Ognissanti: Ercole e il leone, realizzato nel 1935 da Romano Romanelli e posto in questa sede nel 1937. Attraverso una rilettura simbolica del celebre mito delle Dodici Fatiche, Romanelli ha inteso quasi sicuramente rappresentare l’Italia, intenta a strangolare la sua vittima (l’Etiopia) che non a caso è intesa come un animale maestoso, brutale e indomito a ogni forma di civilizzazione pacifica. Spostandosi di pochi metri in linea d’aria, sulla sponda opposta del fiume, troviamo inoltre l’atelier dello stesso Romanelli, situato in borgo San Frediano.

La galleria ospita un interessantissimo insieme di opere, realizzate da ben cinque generazioni di Romanelli e che include l’impressionante statua di un Àscari, realizzata proprio da Romano alla fine degli anni Trenta. Gli àscari (dallo swahili: ʿaskarī, “soldato”) erano militari reclutati dagli italiani fra le popolazioni somale, etiopi, eritree e anche berbere. Nel 1887 vennero inquadrati regolarmente nei Regi Corpi Truppe Coloniali dal generale Antonio Baldissera (1838-1917), che ritroveremo fra poco. Infatti, dopo una salutare passeggiata nell’Oltrarno, possiamo riprendere l’altro lato del fiume all’altezza di Ponte Vecchio e da lì, dopo il lungarno degli Archibusieri, intercettare quello intitolato al generale Armando Diaz (1861-1928). Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito durante la Grande Guerra (dove condusse l’Italia a una sofferta vittoria), Diaz era anche stato al comando del 21° e 93° Reggimento fanteria in Libia (1910-1912), da cui sarebbe tornato ferito dopo la battaglia di Zanzur.

Proprio in fondo ai Lungarni, prima del ponte San Nicolò, troviamo un edificio che segnala anche l’approssimarsi di una conclusione per il nostro breve tour. Si tratta della caserma intitolata, appunto, al generale Baldissera. Figura a dir poco emblematica, Baldissera è stato uno dei protagonisti assoluti delle campagne d’Africa di fine Ottocento, dove ha ricoperto il ruolo di generale per le truppe italiane in Eritrea (1888). Di origine padovana, Baldissera era nato nell’Impero Austro-Ungarico, nel cui esercito servì effettivamente per tutta la durata del Risorgimento. Solo alla conquista italiana del Veneto (1866), quindi, passò in forza al Regio Esercito. La caserma – che oggi ospita i Carabinieri – gli venne intitolata nel 1917, quando morì proprio nella città di Firenze. Con un balzo finale di un chilometro, quindi, possiamo ritrovare la sua storia anche in piazza San Marco, dove è ricordato in una targa (“fu nella guerra eritrea restauratore sapiente animoso delle pericolanti fortune”). Sul lato opposto, nei locali del Sistema Museale d’Ateneo, in via Giorgio la Pira, troviamo un ultimo, significativo retaggio coloniale.

Si trova all’interno del Museo di Geologia e Paleontologia. Più precisamente, in fondo al cortile d’accesso principale, dove si può ancora leggere una targa: “Centro Studi Erbario Tropicale”. Qui, nel dipartimento di biologia dell’Università di Firenze, venne creato ai tempi un Erbario Coloniale (1918), adibito allo studio scientifico della flora proveniente dai domini italiani dell’Africa Orientale. Concludere questa escursione in piazza San Marco – e negli ambienti dell’Università – ci permette di ricordare un’ultima figura, tanto importante quanto controversa, che qui studiò Giurisprudenza proprio con La Pira.

Si tratta, ovviamente, del “controverso” giornalista Indro Montanelli (1909-2001), che da Firenze sarebbe partito volontario per l’Etiopia nel 1935. Arruolato come sottotenente al comando di un battaglione di àscari, Montanelli avrebbe documentato la sua (breve) esperienza in un libro. Poi, molti anni dopo, avrebbe provocato un putiferio mediatico affermando di avervi praticato senza pudore il madamato (relazione temporanea, more uxorio) con una bambina di dodici anni. Una storia dai contorni oscuri, che rivela uno fra i tanti, molteplici aspetti, che rendono il colonialismo italiano un fenomeno esemplare nella propria malignità. Una pagina discutibile nella storia di tutti noi, “italiani brava gente”, e che abbiamo cercato di ripercorrere così.

Partendo da un periferico convento di francescani – che nel XV secolo avviarono le prime missioni di evangelizzazione in Etiopia – siamo giunti al centro stesso di Firenze, di fronte al convento domenicano dove lo stesso Giorgio La Pira, il “Sindaco Santo”, sarebbe vissuto per anni. In un’umile cella, fra altri monaci, progettando una collaborazione fra tutti i leader del mondo per garantire la pace e il rapporto di mutuo rispetto fra i popoli. Ma questa è decisamente un’altra storia.